Ponte della Scafa
“Abbiamo passato Orte!”.
La frase annunciava il termine della tormentata tratta
appenninica, con le sue gallerie così dolorose per i timpani, e l’ingresso
nella pianura, allagata dal sole nascente, che precede Roma. Dal finestrino del
vagone cuccette ammiravo il paesaggio sapendo che poco dopo avrei visto i
cortili dei primi caseggiati della città eterna con le automobili e i motorini
parcheggiati. Poi l’ingresso trionfale a Roma Termini tra due ali di tetti rossastri
stracolmi di antenne. Pensavo all’inizio che Roma Termini fosse Roma. Era così
grande per me Roma Termini che pensavo fosse la città di Roma. Primo contatto
con un edificio più grande di quanto potessi perfino immaginare, coi suoi
formidabili soffitti nervati e i 26 binari o giù di lì, con il suo frastuono
soffuso. Primo contatto, folgorante, con
la razza che il mio atlante De Agostini definiva “negroide” ma che rispetto
alla foto aveva le labbra più fini, il naso allungato, una generale magrezza e
una pelle più opaca con un riflesso di peltro. Erano i somali e gli etiopi che
bivaccavano in stazione, avvolti in abiti sgargianti lavati e stirati di
fresco. Parlavano e si muovevano come principesse e dignitari di corte, e
probabilmente lo erano. Non mi degnavano di uno sguardo, nemmeno quando mi
avvicinavo a pochi centimetri da loro. Molti anni dopo, attraverso confidenze raccolte
solo tra soli uomini e solo in camera caritatis ebbi altre al conferme al mio
entusiasmo: avrei appreso da viaggiatori esperti e poco morigerati che la donna
nubiana (proveniente dalla Nubia, cioè l’Africa Nord-orientale) è la più bella,
la più ricercata e la più desiderata di tutto il mondo
Termini era piena di piccoli bar, e c’era persino un
barbiere. Tutto spazzato oggi via da anonime catene di franchising.
Scoprii solo dopo che la città di Roma inizia ai due lati
della galleria. A destra, provenendo dai binari, i taxi e una pasticceria tutta
legni e ottoni. A sinistra un quartiere più gastronomico, salato, di pizze al
taglio incredibilmente unte. E botteghe di macellai, porchettai, salumieri tutti
con un paio di tavoli con la tovaglia di carta dove si poteva consumare un
pasto allo stesso tempo fugace e solido prima di imbarcarsi sul treno. Dove
giovinastri compravano, con soldi guadagnati chissà come, quantità di cibo per andare
allo stadio o da una fidanzata.
E’ vero che tutte le strade portano a Roma, ma nel mio caso tutte
le strade portavano al Ponte della Scafa. L’ultimo ponte sul fiume Tevere, a
circa due kilometri dalla foce. Non ricordo mai di aver fatto due volte la
stessa strada. A volte in metropolitana fino alla stazione Ostiense, poi in treno
fino a Fiumicino. Oppure in treno fino a Ostia poi in autobus. Oppure all’EUR e
da qui in autobus, con un paio di tappe che nemmeno ricordo. Sembrava che una
forza centripeta ci dovesse allontanare dal centro di Roma e ci facesse
orbitare in periferia per poi darci lo slancio fino al mare.
Qualche volta si prendeva un pullman che da Termini andava
all’aeroporto di Fiumicino. Nemmeno lui faceva due volte la stessa strada. Il
vice-autista indossava la stessa camicia dell’autista, solo stirata meglio. Il
vice metteva sù una cassetta che faceva “Gira de qua gira de là, semo romani e
volemo cantà”. Poi estraeva un paio di Ray Ban da una custodia che teneva fissata
alla cintura. Commentava i lavori in corso, insultava gli automobilisti e
faceva il cascamorto con le passeggere. Il mezzo si fermava spesso al cenno
invisibile di alcuni personaggi che salivano a bordo lesti come gatti portando con
loro un involto di pizza o un sacchetto di verdura. Scendevano, e poi un’altro
saliva. I tre iniziavano a confabulare “… ti manda i saluti”, “…l’operazione è andata
bene”, “…mi ha detto sua madre che si è deciso a cercare lavoro.” I nuovi
arrivati parlavano con una velocità e una precisione tali da farmi pensare che
il loro mestiere potesse essere proprio
quello, importantissimo, del messaggero. Di colui che porta le notizie dalla
sua propria vertebra di competenza a quella successiva, lungo la spina dorsale
di una città in continua crescita. Arrivando al Leonardo da Vinci per la prima
volta, rimasi stupefatto nel leggere a grandi lettere gialle “Aeroporto
intercontinentale”. Avevo già preso un paio di voli nazionali, e sapevo
naturalmente che esistevano voli internazionale. Ma che ce ne fossero di
intercontinentali questo proprio non lo sapevo.
L’autobus Menarini arancione macinava nel cambio grossi
detriti con scossoni che strappavano le gomme sull’asfalto. Si scendeva al Ponte
della Scafa sotto lo sguardo compassionevole dell’autista. Ponte della Scafa
era un luogo di zanzare, di rane. Caldo torrido in estate, freddo umido in
inverno. Lì si trova il più grande assembramento di barche da diporto in
Italia, probabilmente di tutto il Mediterraneo. Interamente abusivo, ma nessuno
usava questa definizione. Si diceva piuttosto: “La delibera è già firmata”.
Contente le barche di essere ormeggiare tutte con la prua verso la città eterna
e in lento movimento a causa della corrente. Gli ormeggi iniziavano dalla foce vera
e propria con i circoli più esclusivi, che hanno anche il prato per le signore
e il parco giochi per i bambini. Risalendo la corrente ci sono quelli intermedi,
che hanno il chiosco delle bibite. Ancora più a monte inizia il Bronx nautico,
dove gli ormeggi non hanno proprio nulla e non un piontile piantato nel
canneto, che finisce al Ponte della Scafa che essendo estremamente basso
sull’acqua segna il limite della navigabilità. Un luogo che non potrebbe esistere,
che invece esiste e funzionava già allora perfettamente. Un luogo al centro di
un distretto nautico fatto di velai, cantieri, meccanici che sbucavano dal
nulla per prestare il loro servizio. Da noi c’era anche Filippo che, col suo
ristorante, ci faceva sempre mangiare, ma solo quello che voleva lui, senza
soluzione di continuità dalla colazione alla cena. Non di rado noi ci sedevamo
per la cena mentre altri ospiti finivano il pranzo. C’era poi Rock, il guardiano
dell’ormeggio, un pastore pastore tedesco ragionevole di giorno ma che di notte
era capace di tenerti bloccato per le caviglie fino al mattino se ti
avventuravi sul pontile. Bellisima la natura con uccelli meravigliosi, a
centinaia, che andavano e venivano nella brezza pomeridiana.
Io avevo le mie piccole corvée a bordo ma anche qualche incarico
di politica estera “Dice il papà se ci può prestare ancora il cacciavite col
manico arancione”. Però mi rimaneva tanto, tantissimo tempo per bighellonare
lungo il fiume. Per raccolgliere pezzi di legno macchiati di pittura, perfetti
per misurare la velocità della corrente nei vari punti del fiume. Per curiosare
tra le barche, assistere agli alaggi e ai lavori e ascoltare i commenti, mai
concordi che accompagnano questi momenti.. della gru. Il solo divieto era di
non entrare mai in contatto, per nessun motivo, con l’acqua del Tevere. Mi
successe un giorno mentre armeggiavo con una pompa di sentina e credetti che
sarei stato fulminato dopo pochi secondi come dal morso di un Mamba. Invece
sopravvissi e mi guardai bene dal rivelare l’episodio che mi sarebbe costato
l’analisi del sangue. Mi piace pensare che sia stato quel sorso di elisir di
veleni. a rendermi pittosto resistente alla malattie
Quando era il momento di partire, occorreva fare i conti con
la “barra” un infido rilievo di sabbia
che alza il fondale nel punto in cui la corrente che spinge in fuori si
scontrava col mare che invece spinge indentro. Spesso di doveva ritornare
all’ormeggio al Ponte della Scafa perché il fiume non voleva farci uscire. Si
riprovava, con altri temerari, l’alba seguente. Impazienti di raggiungere le
acque della vacanza, si diceva allora “o la va o la spacca” e si forzava il
blocco col cuore in gola ogni volta che la barca discendeva nel cavo dell’onda.
Poi l’acqua diventava più blu, il silenzio più totale e il litorale laziale con
le sue dune iniziava a scorrere via in lontananza, illuminato dal primo sole.
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