Troppo caldo

04/12/16




L’aereo da Mexico City è in ritardo di otto ore, oppure diciotto. Non so. Mi sono imbarcato a Las Vegas che era già sera e non ho mai visto sorgere il sole in tutto questo tempo. O forse sì, non ricordo.


La notte habanera è buia come una bocca di lupo. I fari del taxi illuminano brevemente un angolo, un portone, un bidone di spazzatura sventrato, un cane che dorme. I padroni della casa particular mi aspettano sulla porta.


Mi sveglio la mattina successiva in un quartiere di Habana che conoscevo poco: Centro Habana, per la precisione sono all’incrocio tra San Lazaro san Nicolas. Venendo dal Malecón (il lungomare), il riferimento è l’Hotel Deauville, con l’inconfondibile skyline blu.Stavolta il sole è sorto eccome, e picchia. Habana però sa essere anche tiepida, in certi angoli ombreggiati e ventosi.


Inizio a esaminare queste strade camminando verso l’ospedale Hermanos Amejeiras. Gli edifici sono belli, maestosi e cadenti. Mancano le parole per descrivere le ringhiere di ferro battuto dei balconi, e le loro travi ormai scoperte dall’azione del tempo e del mare. Alcuni dettagli affrescati, i portoni di legno intarsiato. Le serrande sulla strada prodotte in Spagna quasi un secolo fa. Struggenti i palazzi che hanno dovuto essere puntellati dopo il collasso della parte interna. Quasi intatta la facciata, mentre il corpo è sparito e al suo posto crescono alberi.  Quando il vento li fa ondeggiare, sembra da una certa angolazione che dietro le finestre sia in corso una qualche baruffa.


Gli edifici che resistono sembrano aver incorporato la bellezza sognante di quelli che non ce l’hanno fatta. Una passeggiata su queste strade dovrebbe essere obbligatoria per chiunque aspiri a diventare un architetto.In questi pochi chilometri quadrati ci sono alcuni edifici che rappresentano il prototipo dello stile cui appartengono. L’Edificio Bacardi è il miglior esempio mondiale di Art  Nouveau. L’imponente edificio FOCSA, ma siamo già nel Vedado, terminato nel 1956  era in quel momento il secondo edificio in cemento armato più grande del mondo dopo il Martinelli Building a San Paolo, Brasile.

Sempre nel Vedado, c’è L’Hotel Nacional, che ha ospitato tutti gli artisti e attori più famosi da Errol Flynn a Spencer Tracy. Ha ancora gli ascensori originali e uno strepitoso impianto di posta pneumatica con dettagli di ottone massiccio (per i più giovani: un sistema di tubi dove venivano sparati dei bussolotti contenenti documenti e denaro), oltre a qualche chilometro quadrato di ceramiche andaluse originali.


 Guardo queste costruzioni non posso fare a meno di pensare al loro futuro, quindi al loro restauro. Ci sono state novità politiche sia a Cuba sia negli USA: le piccole aperture dei Castro e soprattutto l’ascesa di Bernie Sanders. Socialdemocratico, ma solo perchè la parola comunista è ancora proibita. 


Si può sognare, e finanziare, un modello di restauro che tenga in conto le esigenze di tutti? Della municipalità che non riscuote quasi tasse, ma deve garantire infrastrutture e servizi, attraverso reti in alcuni casi ottocentesche. Degli esperti che reclamano un restauro corretto anche se costosissimo a causa dei materiali originalmente impiegati, pregiati e provenienti dall’Europa. Infine degli abitanti, da generazioni eroici curatori di queste meraviglie che hanno mantenuto in piedi da soli e senza l’aiuto di nessuno e che non meritano di essere riposizionati in anonimi palazzoni lungo Avenida Rancho Boyeros, a diciotto chilometri dal mare. Si deve a loro, al fatto che ne sono stati per moltissimi anni gli usufruttuari gratuiti a non i proprietari e alla mancanza di materiali e mezzi se questi palazzi non sono stati modificati, ritoccati, stravolti.


 C’è poi chi pensa che la soluzione migliore sarebbe di non fare nulla, e lasciare che questi edifici, quasi tutti orgogliosamente firmati sulla facciata dai loro architetti ritornino al mare sotto forma di sabbia e di ossido ferroso, che si consumino finché le impalcature di legno montate per sostenerli sorreggano unicamente se stesse. E chi vuole ammirarli, che venga adesso.

Ho visto la prima nave da crociera americana entrare nella baia, un fatto storico. A bordo alcuni esuli, per la prima volta di nuovo a Cuba. Tra loro, immagino, alcune spie. Ho visto i turisti scendere nel nulla di Habana Vieja ed essere caricati su bici taxi-verso case private, dove a gruppi di cinque o sei ricevevano il pranzo. I capitani di queste navi hanno preso l’abitudine di sparare alla partenza una salva di quaranta o cinquanta colpi col cannoncino di segnalazione. Distruggendo ogni mio tentativo di siesta e accentuando l’impressione di trovarsi in un paese in guerra non dichiarata. Ci sono i marciapiedi sfondati, i balconi crollati, le facciate puntellate. Ci mancava, appunto, il cannoneggiamento.


San Nicolas, come pure Galiano, è stata asfaltata per l’arrivo di Obama che ci è passato per recarsi all’Hotel Nacional. Non è stata una visita di Stato, ma una visita ufficiale. La differenza? che Raúl Castro non è andato a riceverlo all’aeroporto.  Intollerabile sarebbe stata per l’elettore americano una foto di Obama che stringe la mano di Raul Castro. 


Brucia ancora l’onta di Playa Giron (Baia dei Porci): sconfitta militare, ostaggi sequestrati e riscattati. Se invece di reagire bloccando l’esportazione di Coca Cola verso Cuba avessero analizzato con attenzione le ragioni della sconfitta, ne avrebbero potuto evitare una lunga serie: Saigon, Managua, Mogadiscio. Tutte incredibilmente uguali: terreno carsico, abbondanti corsi d’acqua, giungla, le immancabili risaie impossibili da distruggere. E poi un esercito di contadini, enormemente più combattivi dei marines, che lottano al pugnale fino all’ultimo. Ancora oggi, un’eventuale invasione militare di Cuba diventerebbe un assoluto incubo per gli USA. Di sicuro più facile invaderla di dollari.


Obama ha mangiato in un ristorante consigliatogli da Celine Dion, mentre per dormire ha optato per l’Hotel Nacional al Vedado. Scelta direi infelice, non solo perché è a pochi metri dalla neo ambasciata Usa, ma soprattutto perché fu sede nel 1946 della Mafia Conference, veri e propri stati generali della mafia con tanto di delegati, programmi e votazioni. Vince Lucky Luciano e la sua linea di puntare solo sul gioco d’azzardo e non sulla droga (altri tempi). Il tutto con la benedizione del governo USA grato, perché Cosa Nostra ha protetto i porti americani durante la seconda Guerra Mondiale. La prima trattativa Stato-Mafia.


In questo momento, inevitabilmente tutti guardano agli USA e aspettano un aiuto. Chi s’illude che sia imminente un nuovo piano Marshall per Cuba farà bene ad aprire gli occhi. Un piano Marshall era possibile negli anni '40 dove i consumi crescevano in USA dal 1938 al 1949 del 70% contro il 3% europeo. Significa che una sola briciola caduta dal banchetto USA poteva alimentare il motore europeo.  Oggi la crescita in USA c’è ma si misura in un misero +2,4 % (dato 2015) ed è ottenuta quasi esclusivamente attraverso spese militari e una costante migrazione interna di imprenditori e lavoratori.


Chi afferma che, come indicano gli studi di settore, proprio qui ad Habana c’è la crescita immobiliare più forte in tutto il mondo dovrebbe ricordare che come dicono gli americani, esistono tre tipi di bugie: “Le bugie, le fottute bugie e la statistica”. Le quotazioni non possono altro che crescere dato che partivano da un livello totalmente irrealistico, più o meno dallo stesso livello di Vicolo Corto nel Monopoli. Dovrebbero inoltre provare, costoro, a cercare un sacco di cemento e qualche mattone ad Habana.


Gli investitori USA non sono propensi a investire in paesi instabili, con burocrazie e sindacati troppo forti. Non occorre cercare lontano, l’Italia ne è un esempio, trovandosi solo al 29° posto tra i paesi che hanno beneficiato d’investimenti USA, parecchio indietro anche rispetto a Olanda e Irlanda.


Cambierà Cuba, non cambierà? E che ne so! Gli Ayatollah Castro dovevano cadere nel 1992 con l’abbandono da parte dei sovietici, poi mille altre volte con Elian Gonzalez e poi con Clinton. Bisogna dire che Cuba è stata molto più brava ad agitare lo spauracchio USA di quanto non siano stati gli USA ad agitare lo spettro cubano. Tutti quelli che hanno previsto la caduta degli Ayatollah hanno sbagliato, in particolare gli undici presidenti USA che, chi più chi meno, avevano scommesso sulla fine dei Castro: Dwight Eisenhower, John Fitzgerald Kennedy, Lyndon Johnson, Richard Nixon, Gerald Ford, Jimmy Carter, Ronald Regan, George Bush, Bill Clinton, George Walker Bush, Barack Obama.


Ormai in Italia nessuno mi chiede più di Cuba, tutti leggono che sono arrivati gli Stones e Obama e concludono che Cuba è cambiata. Sorrido, e non mi dispiace di sentirmi liberato da questa responsabilità di opinionista. 

Mi concentro per un paio d’ore sulle nuvole che arrivano sul Malecon, così incredibilmente basse, veloci, opache, sfilacciate, irrequiete. Poche ore fa hanno sorvolato la Florida o la Louisiana. Sono così diverse dai placidi batuffoloni abbaglianti dell’Oriente di Cuba, che galleggiano sugli Alisei rotolando continuamente su se stesse.

Mi riempio dell’odore dolciastro della canna da zucchero, che si sente fin dentro ai quartieri periferici. Lo stesso che mi aveva assalito scendendo la scaletta dell’aereo 24 anni fa.


Torno ai miei edifici. L’historiador della città Eusebio Leal, un Renzo Piano cubano, è praticamente più famoso degli stessi Castro e fa le acrobazie con le poche risorse che gli arrivano dall’estero per salvare Habana. A parte il restauro integrale di Plaza Vieja, ha piazzato singoli colpi magnifici come il Focsa e Palacio de las Cariátides, spettacolare edificio in stile eclettico costruito del 1924. Ma non può fare nulla contro l’inarrestabile degrado di tutto il resto.


C’è il paradosso di un governo che dotato quasi ogni cittadina zuccheriera di provincia di un colorato Bulevar pedonale e che invece ha lasciato letteralmente crollare interi isolati del centro storico più bello dell’America latina. Che non ha minimamente gratificato quello che potrebbe essere il suo più grande contenitore di dissenso.


Mentre sono seduto sul tufo bollente del Malecón si fanno avanti tre ragazze i cui occhi ricordano la selva al mattino, la cui pelle rappresenta tre delle infinite sfumature tra il bianco e il nero. Il cui anno di nascita inizia col due. Spiego loro diplomaticamente che ho mal di testa questo pomeriggio. Iniziamo così a parlare della scuola, della loro vita in una barbacoa (soffitta) arroventata dietro al quartiere cinese. La famiglia allargata, fratellini impertinenti. E vogliono sapere della mia vita. Andiamo a bere qualcosa, io birra e loro Cola, sotto lo sguardo ammiccante dei camerieri. Ci salutiamo dopo diverse ore.  Mi chiedono alla fine con le loro labbra di ciliegia se il mal di testa mi è passato nel frattempo.


Su Concordia, al mattino presto, assisto a uno degli spettacoli più divertenti: arriva il professore di educazione fisica, transenna una fetta di strada con uno spago annodato. E fa lezione! I bambini indossano l’uniforme, solo un paio di loro possiedono i calzoncini e le scarpette da ginnastica. La scuola è gratuita, come lo sono l’asilo nido, il liceo, l’università, la casa, la salute e il dentista. E’ probabile che questo abbia a che fare con l’incredibile longevità degli Ayatollah di cui si scriveva sopra. Non c’è una palla (meglio, finirebbe inghiottita in qualche voragine sul marciapiede) non c’è un attrezzo. Non c’è nemmeno un gioco regolato. Solo salti, giravolte grida. I passanti, rassegnati, aggirano il blocco e prendono Virtutes. Vengono continuamente organizzati giochi, che però non iniziano mai.


Che sia proprio questa la metafora…. C’è nell’aria qualcosa che sta per cambiare, è ovvio che stia per cambiare, tutti vogliono che cambi. Eppure ogni mattina, al sorgere del sole, mi sembra che il cielo e il mare e le strade e le case dicano: “Cambierà, ma non sarà oggi….”.Penso a tutti quelli che mi diranno: “devo venire a Cuba prima che cambi”. Dopo una ventina d’anni che promuovo, nel mio piccolo, i viaggi a Cuba questa volta risponderò: “Non è cambiato niente, e poi fa troppo caldo.”


“Perché le canzoni sono là fuori”

21/12/15




 
Joe Strummer muore il 22 dicembre 2002 nella sua casa di Broomfield, Essex, subito dopo aver portato fuori i suoi cani. Chitarrista e cantautore, leader degli 101'ers, di cui fu fondatore e membro, dei Pogues e soprattutto dei Clash.  A portarlo via, a soli cinquant’anni, è un infarto dovuto a una malformazione cardiaca che si scoprirà solo con l’autopsia. Fondati nel 1976, i Clash si sono sciolti nel 1985. Disse Strummer: “Ci sono tante cose che possono distruggere un gruppo: l’ego, l’alcol, la droga e le donne. E noi cademmo vittima di tutte.” Segue una carriera come autore di colonne sonore e attore che gli porterà soddisfazioni personali ma non più il successo planetario dei Clash. Continuerà l’esperienza musicale coi Mescaleros, gruppo che formò nel 1995 e con cui lavorò fino alla morte, ma di fatto scompare dalla ribalta portandosi dentro il rimorso di avere distrutto una delle migliori band del secolo.
Si chiamava in realtà John Graham Mellor, Strummer (strimpellatore) è solo il soprannome che egli stesso si da per la sua tecnica chitarristica piuttosto rozza. Quando sale su un palco per la prima volta, infatti, sa suonare a malapena le quattro corde di un ukulele. Il suo idolo Sid Vicious dei Sex Pistols non sa suonare nemmeno quelle e imbraccia una chitarra non collegata all’amplificatore.
Le sue straordinarie doti di performer e una voce roca, graffiante e versatile gli bastano per procurarsi da mangiare come suonatore di strada, dopo aver abbandonato il collegio ed essere stato espulso dall’istituto d’arte Newport Art School il cui preside non gradisce una sua scultura fatta di assorbenti interni usati.  Strummer imparerà a suonare strada facendo, da musicisti formidabili come il violinista folk Tymon Dogg e Nick  Headon, il batterista dei Clash nonché unico componente con una reale preparazione musicale. Oggi, con l’industria discografica che si alimenta dalle ferree selezioni del talent show, questo ha dell’incredibile.
in cambio di 120 sterline, Strummer sposa nel 1975 la sudafricana Pamela Moolman, in modo che lei possa ottenere la cittadinanza britannica. Acquista così la Fender Telecaster del 1966 nera (poi coperta di adesivi) con tastiera in palissandro che lo accompagnerà per tutta la carriera. La chitarra è oggi un best seller tra le replica,  e sono disponibili anche le riproduzioni degli adesivi.
In quegli anni Strummer scopre l'esistenza di un mondo musicale che stava cominciando a formarsi, e a cui lui avrebbe preso parte pienamente, il punk.
I Clash, formati da Joe Strummer (voce, chitarra ritmica), Mick Jones (chitarra solista, voce), Paul Simonon (basso, voce) e Nick "Topper" Headon (batteria), legano la loro identità alla condizione giovanile proletaria inglese, invocano una presa di coscienza dei kids, pretendono il riscatto delle nuove generazioni, denunciano il vuoto e le sofferenze nelle quali sono costretti a vivere. I loro messaggi sono diretti e in fondo anche positivi nella loro rabbia, a differenza del nichilismo senza via d'uscita espresso dai Pistols.
London Calling è la consacrazione mondiale che porta i Clash all’apice del successo sulle due sponde dell’Atlantico. Strummer, che  incarna ormai il musicista di sinistra duro e puro, sempre schierato coi giovani e coi deboli, rimane lucido. Guarda già alla prossima tappa e capisce che il movimento punk è ancora vivo ma la musica punk non è più il suo unico linguaggio. Nato ad Ankara da un diplomatico britannico e cresciuto al Cairo e Città del Messico,  intuisce che i bianchi devono imparare dai neri a suonare e a ribellarsi (come canta in White Riot). Quei neri, caraibici e africani, con cui ha incrociato percorsi e destini e con cui ha condiviso cibo, case occupate e interminabili scorribande notturne. Nasce così il triplo album “Sandinista”, sigla FSLN1 nel catalogo CBS, da Frente Sandinista de Liberación Nacional, uno degli album più importanti della storia del rock. Le sue incursioni nei linguaggi reggae, dub, jazz, rap, rock,  valzer, calypso sono eclettiche, profonde e aggraziate e elevano il disco accanto a Sgt. Pepper’s dei Beatles (1967) che col sitar di Ravi Shankar avevano inventato la world music. Non mancano i brani completamente politici, tra i quali spicca certamente Washington Bullets, fortissima denuncia verso il coinvolgimento statunitense nell'America Centrale ed in Sudamerica (in particolare a Cuba ed in Cile), a loro parere di chiaro stampo fascista. Sandinista!, che ancora oggi è un’esperienza di ascolto memorabile, prese alla sprovvista molti fan, tra cui il futuro leader dei Nirvana Kurt Cobain che non mancò di criticare un album che avrebbe voluto “più punk”.
Oggi, padre di un adolescente, mi rendo conto di essere stato anch’io punk. Senza saperlo. Insieme a tutta la mia generazione compressa tra quella precedente, molto più militante, e quella successiva, molto più svelta e affarista. Una generazione che stentava a trovare il suo posto, che viveva nella perenne attesa che succedesse qualcosa, per poi raccogliere solo delusioni come la caduta del muro di Berlino e la successiva guerra in Bosnia.  Bravissimi solo a sgattaiolare fuori dalle nostre case, scuole e università dove non veniva mai detto niente che potesse minimamente riguardarci per schiacciarci, nel vero senso della parola, gli uni agli altri attorno alla musica, o su una panchina.
Non c´è un gruppo di cui oggi senta la mancanza più dei Clash e un cantautore di cui si senta la mancanza più di Strummer. La sua reputazione è in costante ascesa. La Strummerville Foundation, voluta da familiari e amici diffonde il suo legato musicale e sostiene progetti artistici giovanili. ”Il futuro non è scritto - Joe Strummer” del  regista britannico Julien Temple  (2007) è  un film-documentario pluri-premiato che racconta la sua vita. Il 21 maggio 2013 la municipalità di Granada, città che lui aveva citato in Spanish Bombs  (London Calling) gli ha dedicato una piazza. Lo strimpellatore avrebbe sicuramente gradito questo omaggio un po’ malizioso a un occupatore di case. Conosce molto bene la Spagna, ci va più riprese tra il 1985 e il 1997, gli sembra di trovare nella società  post-franchista lo stesso terreno fertile che aveva fatto nascere il punk in Inghilterra. A Granada ci va depresso e devastato dal rimorso per aver  licenziato l’altro compositore dei Clash, Mick Jones, causando di fatto lo scioglimento della band. Ci va alla ricerca della tomba di Federico Garcia Lorca, e anche di una Dodge 3700 GT acquistata a Madrid e poi lasciata in un parcheggio del quale il mattino successivo non ricorda più nulla. Nonostante l’aiuto dei fans spagnoli, mobilitati dai suoi appelli, la Dodge non sarà mai più ritrovata. 
Nel 2003 i Clash sono ammessi, con un discorso di the Edge degli U2, nella Rock’n Roll Hall of Fame.
Nel novembre del 2009 la stampa riferisce che nel consiglio comunale di Tonara (NU) è stato proposto di dedicare una via a Joe Strummer, sarebbe stato il primo caso in Italia di intestazione di una via cittadina a un personaggio del punk. Poco tempo dopo, l'assessore ai lavori pubblici smentisce la notizia.
Il 4 luglio 2013 il comune di Bologna dedica l'Arena Parco Nord a Joe Strummer, che proprio in quella location si esibì in uno dei suoi ultimi concerti nel 1999.
Anche se non bisognerebbe mai farlo, viene da chiedersi come avrebbe guardato oggi Strummer a quel mondo che con l’espressione del suo talento e la sua integrità aveva reso un posto leggermente migliore in cui vivere. Avrebbe cantato “Rock the Casbah” a Baghdad? Avrebbe suonato ai funerali degli adolescenti negri uccisi dalla polizia in USA? Avrebbe lavorato al programma culturale di qualche governo illuminato, che oggi bisognerebbe probabilmente cercare in America Latina, come aveva fatto Frank Zappa con Vaclav Havel nel 1990 a Praga?
E cosa avrebbe detto Strimpellatore dopo la sparatoria al Bataclan di Parigi? Dove rivolgerebbe il suo sguardo caustico, ma generoso, di fronte all’inguardabile agonia di questa nostra civiltà? Agonia che lui aveva intravisto, solo più composta, meno oscena, meno barbara. Avrebbe probabilmente aperto la finestra per ascoltare il frastuono notturno della città di Londra. Questo era sufficiente, diceva, per scrivere una buona canzone. “Perché le canzoni sono là fuori”.

Mishal

13/08/15


 
 


Sono convinto, naturalmente non ne ho le prove, che finisco per incontrare realmente i personaggi dei libri che mi sono piaciuti.

Solo per restare agli incontri più recenti, ho incontrato Mishal Sufyan, la ragazzina terribile de "I Versi Satanici" di Salman Rushdie. Mishal che a Londra, per mortificare la madre indiana, indossava solo pigiami con l'immagine di Bruce Lee. E di giorno “portava i capelli cortissimi e permetteva ai propri capezzoli di premere contro camice scandalosamente aderenti”. Era nella reception di un albergaccio vicino a Heathrow, nel pieno di un quartiere indiano. L’albergo esattamente identico a quello che, nel libro, gestisce la sua famiglia. Tutto scale strette, angoli oscuri foderati di moquette, odore di zenzero. Una Red-Bull nella mana sinistra, il suo smartphone in quella destra. Ho incrociato i suoi occhi scuri solo per una manciata di secondi mentre mi allungava la chiave della stanza. È restata del tutto del tutto immobile e muta, se non per un impercettibile segno del capo quando le ho detto: “ho parcheggiato la mia macchina qui davanti, è una 500 rossa...”. Le ultime tre parole pronunciate in un lieve bisbiglio. E´ tornata subito a rovesciare la sua chioma brillante sullo smartphone.

Sotto forma di un cliente belga ho conosciuto, solo telefonicamente, Hal Valance. Il cinico produttore televisivo di Aliens Show dove Saladin Chamcha, attore indiano, recitava prima dell'incidente aereo che trasformerà lui e Gibreel Farishta nell’incarnazione del Bene del Male. Hal lo licenzierà successivamente: “I rilevamenti dell’audience rivelano che le minoranze etniche non guardano gli show etnici. Non li vogliono, Chamcha. Vogliono Dynasty come tutti gli altri. Il tuo profilo è sbagliato, capisci: con te dentro lo show diventa troppo razziale”. Proprio come faceva Hal anche il mio cliente usava in continuazione la parola “universo”. Mi spiegava come raggiungere …l’“universo” di clienti interessati ad un prodotto…quello è tutto un altro “universo”…“c’è tutto un universo là fuori, e lo dobbiamo prendere”.

Da questo libro controverso e formidabile vorrei incontrare adesso Pinkwalla, il dj cialtrone dell’ Hot Wax Club. Grottesco come il suo nome.

Troppo giovane o troppo distratto invece per Leni Gruyten. Lei aveva 48 anni nel 1973. Era la protagonista di “Foto di gruppo con signora”, di Heinrich Böll, premiato lo stesso anno con il Nobel. “Una delle poche donne che possono permettersi a 48 anni di portare una minigonna”. La lettura di questo libro mi guadagnò la stima eterna della mia professoressa di tedesco e l’esasperazione dei miei compagni di classe quando fui chiamato in cattedra a fare il riassunto di un libro di 428 pagine. Un minimo d’interesse solo quando Böll racconta come Leni avesse iniziato a conoscere l’orgasmo, non solo inteso nel senso mistico della sua educatrice suor Haruspika, ogni volta che da bambina metteva il piede su una pietra sconnessa del selciato davanti a casa sua.

 
 
 
 

Mishal

Sono convinto, naturalmente non ne ho le prove, che finisco per incontrare realmente i personaggi dei libri che mi sono piaciuti.

Solo per restare agli incontri più recenti, ho incontrato Mishal Sufyan, la ragazzina terribile de "I Versi Satanici" di Salman Rushdie. Mishal che a Londra, per mortificare la madre indiana, indossava solo pigiami con l'immagine di Bruce Lee. E di giorno “portava i capelli cortissimi e permetteva ai propri capezzoli di premere contro camice scandalosamente aderenti”. Era nella reception di un albergaccio vicino a Heathrow, nel pieno di un quartiere indiano. L’albergo esattamente identico a quello che, nel libro, gestisce la sua famiglia. Tutto scale strette, angoli oscuri foderati di moquette, odore di zenzero. Una Red-Bull nella mana sinistra, il suo smartphone in quella destra. Ho incrociato i suoi occhi scuri solo per una manciata di secondi mentre mi allungava la chiave della stanza. È restata del tutto del tutto immobile e muta, se non per un impercettibile segno del capo quando le ho detto: “ho parcheggiato la mia macchina qui davanti, è una 500 rossa...”. Le ultime tre parole pronunciate in un lieve bisbiglio. E´ tornata subito a rovesciare la sua chioma brillante sullo smartphone.

Sotto forma di un cliente belga ho conosciuto, solo telefonicamente, Hal Valance. Il cinico produttore televisivo di Aliens Show dove Saladin Chamcha, attore indiano, recitava prima dell'incidente aereo che trasformerà lui e Gibreel Farishta nell’incarnazione del Bene del Male. Hal lo licenzierà successivamente: “I rilevamenti dell’audience rivelano che le minoranze etniche non guardano gli show etnici. Non li vogliono, Chamcha. Vogliono Dynasty come tutti gli altri. Il tuo profilo è sbagliato, capisci: con te dentro lo show diventa troppo razziale”. Proprio come faceva Hal anche il mio cliente usava in continuazione la parola “universo”. Mi spiegava come raggiungere …l’“universo” di clienti interessati ad un prodotto…quello è tutto un altro “universo”…“c’è tutto un universo là fuori, e lo dobbiamo prendere”.

Da questo libro controverso e formidabile vorrei incontrare adesso Pinkwalla, il dj cialtrone dell’ Hot Wax Club. Grottesco come il suo nome.

Troppo giovane o troppo distratto invece per Leni Gruyten. Lei aveva 48 anni nel 1973. Era la protagonista di “Foto di gruppo con signora”, di Heinrich Böll, premiato lo stesso anno con il Nobel. “Una delle poche donne che possono permettersi a 48 anni di portare una minigonna”. La lettura di questo libro mi guadagnò la stima eterna della mia professoressa di tedesco e l’esasperazione dei miei compagni di classe quando fui chiamato in cattedra a fare il riassunto di un libro di 428 pagine. Un minimo d’interesse solo quando Böll racconta come Leni avesse iniziato a conoscere l’orgasmo, non solo inteso nel senso mistico della sua educatrice suor Haruspika, ogni volta che da bambina metteva il piede su una pietra sconnessa del selciato davanti a casa sua.

 

Goldene medine (*)

28/11/14


 foto Dario Ansaloni
 
Permesso, anzi quasi chic, tornare dall'America e dire che non ci è piaciuta. Proibito, a mio avviso, dire che siamo stati in America e non abbiamo imparato anche una grande lezione.

Sul lavoro. La pazienza infinita con cui gli americani sopportano, pur di acquistare il made in Italy, tutti i nostri numerosi –ismi (mammismo, infantilismo, machismo, pressapochismo…) e le nostre due più gravi malattie nazionali: la capacità di risolvere i problemi all’ultimo secondo e solo all’ultimo secondo. La completa incapacità, invece, di mettere a fuoco anche con tutto l’aiuto esterno i nostri punti deboli. Che poi sono sempre gli stessi, e coi quali ci giochiamo la quota legittima di talento che a ciascuno di noi hanno lasciato in eredità i nostri antenati greci e romani insieme a rovine indubbiamente redditizie. La pazienza infinita con cui sopportano il venditore medio italiano, vanitoso e irrequieto. Con le sue giacche di sartoria (“perfetta anche dopo dieci ore di aereo”), con le sue scarpe da 600 euro, con i suoi “solo perché sei tu”, con il suo blocchetto di ricevute taxi già timbrate, acquistato (lo dico per i colleghi che non lo sapessero) dai soci della cooperativa “Taxi centrale” di Napoli per 15 €. Non trattabili, data la natura dell’articolo. Con il suo incredibile repertorio di scuse per una ritardata consegna (“elezioni comunali, molti dei nostri operai sono stati chiamati a fare gli scrutatori”). E soprattutto con il suo sapere di lirica, di automobili, di donne, di investimenti, di arte. Insomma di tutto, tranne che del proprio prodotto.
Però gli americani sono sempre lì a dire quanto siamo bravi, quanto gli piacerebbe venire in Italia, quanto gli piacerebbe in fondo anche essere italiani, e come basti mangiare al ristorante delle non meglio identificate “fettuccini Alfredo” per sentirsi in Italia anche solo per un paio d’ore.  Quanto devono invidiarci se hanno chiamato alcune loro località senza qualità Naples, Syracuse, Ravenna. C’è persino, non lo sapevo e non potevo credere ai miei occhi, una Lodi, Ohio in omaggio alla nostra nebbiosa cittadina, incastonata tra Piacenza e Milano e dedita soprattutto all’allevamento. Decisamente sconosciuta se non fosse, solo di recente, per il nostro tesoro nazionale Bianca Balti.

Non serve nemmeno venire in USA per lavoro, un attento osservatore capirà già solo al ristorante di che pasta è fatto questo popolo. Camerieri e cameriere sono tutti giovanissimi e sorridenti “sono Samantha, Jenny, Milly, Hugh…. e mi occuperò di lei stasera”. Il protocollo è praticamente identico, dappertutto: la birra te la portano in pochi secondi, perfettamente spillata, ti viene da chiederti come fanno. Poi vengono a prendere l’ordine, e il menu interminabile lo sanno tutto a memoria. A metà del piatto passano a chiederti “tutto bene con lei, signore?” Poi ritirano il piatto e chiedono se vuoi un’altra birra. Se rispondi di no tirano fuori dal grembiule il conto, già preparato. Se invece bevi ancora ti portano da bere e ristampano il conto aggiornato. Impeccabili, professionali, veloci. Vorrei fermarmi qualche minuto a guardare le facce dei clienti e i pezzi dell’arredamento della gigantesca steak house in cui mi trovo, piena di televisori giganti che trasmettono lo sport. Non credo ai miei occhi: su una cornice in legno massiccio c’è una piccola etichetta che dice “non sono sporca ma solo un po’ vecchia”. Non sono contrario alle alleanze coi giovani, purché i giovani non ci mettano solo la giovinezza. Deve essere un’alleanza alla pari. Ho capito subito come posso mettere in crisi Samantha, Jenny, Milly, Hugh: “Quale birra mi consigli, quale berresti tu?”. Per contratto o per educazione loro non possono ammettere di conoscere le birre e di farne uso. Verso la fine del mio viaggio ho perfezionato la domanda in “Quale bevono i tuoi amici?”. L’effetto imbarazzante è garantito.   
Impossibile parlare di USA e non parlare del loro flagello biblico: gli avvocati. Onnipresenti, agguerriti, senza freni inibitori. Uno di loro è su un immenso cartellone al lato della highway (ma non immenso come i nostri, proprio immenso-immenso). In sella a una Harley, pubblicizza assistenza legale per gli incidenti in moto! Un altro si è specializzato in class actions contro una causa farmaceutica che ha messo in commercio un medicinale dannoso. In TV proclama: “avete sofferto danni, invalidità o persino la morte a causa del farmaco X? Chiamate Tigers of Law!”. Fantastico il lapsus (ma sarà poi un lapsus?): se sei morto, chiama le Tigri della Legge!  
 
Findlay, Ohio. Sbuca dall'angolo un balordo che borbotta tra se "What a nation of cowards we 've become!" (che nazione di codardi siamo diventati). Mi prende di sorpresa, con la guardia abbassata. Lo inchiodo con uno sguardo: “Sgomma bro, che qui non ce n’è. E soprattutto non pensare nemmeno di passarmi dietro le spalle”. In USA noi europei commettiamo tutti lo stesso errore, cioè stiamo sempre sul chi vive, siamo impauriti. Non capiamo che il negro di due metri che troviamo fuori dall'ascensore e che ci fa sobbalzare di paura vuole in realtà solo aiutarci con la valigia, tenerci aperta la porta, aiutarci a trovare la reception, il bar, il parcheggio. Non capiamo che la ragazza con faccia patibolare che ci viene incontro nel parcheggio ci vuole solo chiedere: “How are you doing this evening!”. Che il poliziotto di Newark dal cognome polacco, il cui viso non va per niente d’accordo con la sua uniforme, vuole solo accompagnarci di persona al nostro gate. Il balordo di Findlay capisce e mi passa davanti, in orbita di sicurezza. Lo guardo allontanarsi lungo la Main Road, continua a borbottare. Davanti a un building abbandonato si china persino a raccogliere una cartaccia e la getta nel cestino. Mi spiace in fondo lasciare andar via l'unica persona che avrebbe forse potuto aiutarmi a capire quel che non ho ancora capito di questo paese, cioè molto. Ad esempio dove inizia la fognatura da cui escono i ratti violenti, i gunmen liceali di Columbine che vanno a giocare a bowling prima di sparare ai loro compagni di scuola, i moonshiners distillatori clandestini che si nascondono nei boschi degli Appalachi, i fumatori di crack.

Capisco invece, anche se solo per un attimo, come si possa desiderare di dormire col cannone sotto il cuscino. Mi succede in un motel isolato in Pennsylavania, mentre sento passi pesanti salire la scala del parcheggio. Per tutta la giornata i media hanno raccontato in diretta della caccia a Eyre, l’ultimo dei gunmen. Così uguale a tutti gli altri: faccia da bravo ragazzo, un passato nelle forze speciali,  addestramento e condizione fisica formidabili. Tiene in scacco i federali e i loro cani da una settimana muovendosi nei boschi. Lo prenderanno la mattina dopo alle sei, nell’hangar di un piccolo aeroporto abbandonato, tutto il suo arsenale praticamente intatto. Il colpo in canna che deciderà di non piantarsi in testa. Sceglie la tuta arancione, e quasi sicuramente il braccio della morte (ha ucciso due poliziotti). Alle otto gli abitanti del posto già mostrano in  TV le t-Shirt commemorative, mentre il governatore che essi hanno eletto non si vergogna di ringraziare pubblicamente il suo dio feroce per aver permesso la cattura di Eyre da vivo.  


(*) Stato d'oro, in yiddish

27/09/14


Ponte della Scafa

“Abbiamo passato Orte!”.

La frase annunciava il termine della tormentata tratta appenninica, con le sue gallerie così dolorose per i timpani, e l’ingresso nella pianura, allagata dal sole nascente, che precede Roma. Dal finestrino del vagone cuccette ammiravo il paesaggio sapendo che poco dopo avrei visto i cortili dei primi caseggiati della città eterna con le automobili e i motorini parcheggiati. Poi l’ingresso trionfale a Roma Termini tra due ali di tetti rossastri stracolmi di antenne. Pensavo all’inizio che Roma Termini fosse Roma. Era così grande per me Roma Termini che pensavo fosse la città di Roma. Primo contatto con un edificio più grande di quanto potessi perfino immaginare, coi suoi formidabili soffitti nervati e i 26 binari o giù di lì, con il suo frastuono soffuso.  Primo contatto, folgorante, con la razza che il mio atlante De Agostini definiva “negroide” ma che rispetto alla foto aveva le labbra più fini, il naso allungato, una generale magrezza e una pelle più opaca con un riflesso di peltro. Erano i somali e gli etiopi che bivaccavano in stazione, avvolti in abiti sgargianti lavati e stirati di fresco. Parlavano e si muovevano come principesse e dignitari di corte, e probabilmente lo erano. Non mi degnavano di uno sguardo, nemmeno quando mi avvicinavo a pochi centimetri da loro. Molti anni dopo, attraverso confidenze raccolte solo tra soli uomini e solo in camera caritatis ebbi altre al conferme al mio entusiasmo: avrei appreso da viaggiatori esperti e poco morigerati che la donna nubiana (proveniente dalla Nubia, cioè l’Africa Nord-orientale) è la più bella, la più ricercata e la più desiderata di tutto il mondo

Termini era piena di piccoli bar, e c’era persino un barbiere. Tutto spazzato oggi via da anonime catene di franchising.

Scoprii solo dopo che la città di Roma inizia ai due lati della galleria. A destra, provenendo dai binari, i taxi e una pasticceria tutta legni e ottoni. A sinistra un quartiere più gastronomico, salato, di pizze al taglio incredibilmente unte. E botteghe di macellai, porchettai, salumieri tutti con un paio di tavoli con la tovaglia di carta dove si poteva consumare un pasto allo stesso tempo fugace e solido prima di imbarcarsi sul treno. Dove giovinastri compravano, con soldi guadagnati chissà come, quantità di cibo per andare allo stadio o da una fidanzata. 

E’ vero che tutte le strade portano a Roma, ma nel mio caso tutte le strade portavano al Ponte della Scafa. L’ultimo ponte sul fiume Tevere, a circa due kilometri dalla foce. Non ricordo mai di aver fatto due volte la stessa strada. A volte in metropolitana fino alla stazione Ostiense, poi in treno fino a Fiumicino. Oppure in treno fino a Ostia poi in autobus. Oppure all’EUR e da qui in autobus, con un paio di tappe che nemmeno ricordo. Sembrava che una forza centripeta ci dovesse allontanare dal centro di Roma e ci facesse orbitare in periferia per poi darci lo slancio fino al mare.

Qualche volta si prendeva un pullman che da Termini andava all’aeroporto di Fiumicino. Nemmeno lui faceva due volte la stessa strada. Il vice-autista indossava la stessa camicia dell’autista, solo stirata meglio. Il vice metteva sù una cassetta che faceva “Gira de qua gira de là, semo romani e volemo cantà”. Poi estraeva un paio di Ray Ban da una custodia che teneva fissata alla cintura. Commentava i lavori in corso, insultava gli automobilisti e faceva il cascamorto con le passeggere. Il mezzo si fermava spesso al cenno invisibile di alcuni personaggi che salivano a bordo lesti come gatti portando con loro un involto di pizza o un sacchetto di verdura. Scendevano, e poi un’altro saliva. I tre iniziavano a confabulare “… ti manda i saluti”, “…l’operazione è andata bene”, “…mi ha detto sua madre che si è deciso a cercare lavoro.” I nuovi arrivati parlavano con una velocità e una precisione tali da farmi pensare che il loro mestiere potesse essere  proprio quello, importantissimo, del messaggero. Di colui che porta le notizie dalla sua propria vertebra di competenza a quella successiva, lungo la spina dorsale di una città in continua crescita. Arrivando al Leonardo da Vinci per la prima volta, rimasi stupefatto nel leggere a grandi lettere gialle “Aeroporto intercontinentale”. Avevo già preso un paio di voli nazionali, e sapevo naturalmente che esistevano voli internazionale. Ma che ce ne fossero di intercontinentali questo proprio non lo sapevo.   

L’autobus Menarini arancione macinava nel cambio grossi detriti con scossoni che strappavano le gomme sull’asfalto. Si scendeva al Ponte della Scafa sotto lo sguardo compassionevole dell’autista. Ponte della Scafa era un luogo di zanzare, di rane. Caldo torrido in estate, freddo umido in inverno. Lì si trova il più grande assembramento di barche da diporto in Italia, probabilmente di tutto il Mediterraneo. Interamente abusivo, ma nessuno usava questa definizione. Si diceva piuttosto: “La delibera è già firmata”. Contente le barche di essere ormeggiare tutte con la prua verso la città eterna e in lento movimento a causa della corrente. Gli ormeggi iniziavano dalla foce vera e propria con i circoli più esclusivi, che hanno anche il prato per le signore e il parco giochi per i bambini. Risalendo la corrente ci sono quelli intermedi, che hanno il chiosco delle bibite. Ancora più a monte inizia il Bronx nautico, dove gli ormeggi non hanno proprio nulla e non un piontile piantato nel canneto, che finisce al Ponte della Scafa che essendo estremamente basso sull’acqua segna il limite della navigabilità. Un luogo che non potrebbe esistere, che invece esiste e funzionava già allora perfettamente. Un luogo al centro di un distretto nautico fatto di velai, cantieri, meccanici che sbucavano dal nulla per prestare il loro servizio. Da noi c’era anche Filippo che, col suo ristorante, ci faceva sempre mangiare, ma solo quello che voleva lui, senza soluzione di continuità dalla colazione alla cena. Non di rado noi ci sedevamo per la cena mentre altri ospiti finivano il pranzo. C’era poi Rock, il guardiano dell’ormeggio, un pastore pastore tedesco ragionevole di giorno ma che di notte era capace di tenerti bloccato per le caviglie fino al mattino se ti avventuravi sul pontile. Bellisima la natura con uccelli meravigliosi, a centinaia, che andavano e venivano nella brezza pomeridiana.

Io avevo le mie piccole corvée a bordo ma anche qualche incarico di politica estera “Dice il papà se ci può prestare ancora il cacciavite col manico arancione”. Però mi rimaneva tanto, tantissimo tempo per bighellonare lungo il fiume. Per raccolgliere pezzi di legno macchiati di pittura, perfetti per misurare la velocità della corrente nei vari punti del fiume. Per curiosare tra le barche, assistere agli alaggi e ai lavori e ascoltare i commenti, mai concordi che accompagnano questi momenti.. della gru. Il solo divieto era di non entrare mai in contatto, per nessun motivo, con l’acqua del Tevere. Mi successe un giorno mentre armeggiavo con una pompa di sentina e credetti che sarei stato fulminato dopo pochi secondi come dal morso di un Mamba. Invece sopravvissi e mi guardai bene dal rivelare l’episodio che mi sarebbe costato l’analisi del sangue. Mi piace pensare che sia stato quel sorso di elisir di veleni. a rendermi pittosto resistente alla malattie   

Quando era il momento di partire, occorreva fare i conti con la “barra”  un infido rilievo di sabbia che alza il fondale nel punto in cui la corrente che spinge in fuori si scontrava col mare che invece spinge indentro. Spesso di doveva ritornare all’ormeggio al Ponte della Scafa perché il fiume non voleva farci uscire. Si riprovava, con altri temerari, l’alba seguente. Impazienti di raggiungere le acque della vacanza, si diceva allora “o la va o la spacca” e si forzava il blocco col cuore in gola ogni volta che la barca discendeva nel cavo dell’onda. Poi l’acqua diventava più blu, il silenzio più totale e il litorale laziale con le sue dune iniziava a scorrere via in lontananza, illuminato dal primo sole.

        

La “sbeccazida”

Invidio, ho sempre invidiato genovesi e romani. Per il modo in cui amano le loro città, i loro quartieri coi loro odori, per il modo in cui persino i granelli di sabbia scricchiolano sotto le loro scarpe e solo sotto le loro scarpe. Non posso dire altrettanto, i miei antenati sono stati (de)portati qui a Bolzano da altri luoghi. Non ho una città, non ho un dialetto, la sabbia sotto le mie scarpe non fa nessun rumore. Forse per questo, per riempire la mancanza originale, mi sono interessato fin da bambino alle lingue e ai dialetti. Li ho mescolati e ne ho inventati di nuovi, anche con l’aiuto di alcuni amici geniali.

La “sbeccazida” si deve a un amico romano di nascita, cresciuto a Genova, scaraventato infine a Bolzano. In seconda o terza media inventò questa frase: “Ué, ‘ta ‘tent vé ca gö el beccüz cur cubelt! Si te dö ‘na sbeccazida ti se’ mört!”. Traduzione: “Ehi,stai attento sai che ho il becco (rinforzato) col cobalto! Se ti do una beccata sei morto!”.
Chissà che diavolo di baruffe si agitavano nella sua fantasia! Credo che questo dialetto esprimesse la meraviglia del romano che sale al nord. È anche possibile che avesse sentito arrivare, con vent’anni di anticipo, il leghismo. Cioè che avesse sentito calare su di se il becco del nord.