let’s work!

22/05/10


Ho trovato lavoro, o lui ha trovato me. Comunque ci siamo trovati, tutto bene quello che finisce bene. Non lo dicevo in giro, ma ero disoccupato dall’inizio dell’anno. Sì, avevo scelto di mentire: quando mi chiedevano: “Come va il lavoro?” io rispondevo: “Benone, sempre di corsa!” Non ce la facevo proprio ad ammettere di essere senza lavoro. Intanto, con discrezione, mi muovevo tra i colloqui di lavoro. Con naturalezza fissavo negli occhi i miei interlocutori e dichiaravo: “Si potrebbe naturalmente implementare un piano per portare valore aggiunto a un prodotto high-end”. Implementare, valore aggiunto e high-end son o le tre parole magiche che non bisogna mai mancare di pronunciare durante un colloquio: funzionano sempre. Ho solo una vaga idea di cosa significhino esattamente. Credo peraltro anche gli interlocutori, ma non osano chiedere: farebbero brutta figura.








Lavoro per una ditta austriaca. Sapevo, speravo che prima o poi nel corso della mia vita sarei emigrato. La loro offerta era di quelle che non si possono rifiutare. Economicamente, in primo luogo: 30% al di sopra della miseria che si paga in Italia per una mansione analoga. In Italia mi sono sentito offrire 1.600 euro per dirigere una filiale estera nella carissima Parigi. “Abitazione esclusa”, ci hanno tenuto a specificare. Con uno stipendio così non si può nemmeno campeggiare sul lungo Senna. Il mio stipendio in Austria è tutto in busta, nessuna proposta oscena del tipo: “Una parte la dobbiamo fare in nero, conviene anche a te così non ci paghi le tasse…” I colloqui prima dell’assunzione sono stati dei gradevoli scambi di opinioni, non dei processi per direttissima finalizzati solo a tirare sul prezzo. Il direttore del personale mi ha dedicato due ore di tempo per spiegarmi cosa fa l’azienda e com’è organizzata. Poi mi ha chiesto se avessi voglia di lavorare per loro e quale avrebbe dovuto essere il mio salario. Il contratto di lavoro non aveva clausole scritte in piccolo. Tutto perfetto, tutto liscio come l’olio: ho avuto quasi paura che di colpo uscissero fuori quelli di “Scherzi a parte”. Un suo sguardo compassionevole solo quando, a proposito del salario che ricevevo in Italia, mi ha chiesto: “Settimanale o mensile?”e io gli ho dovuto rispondere: “mensile”. Alla fine ero così a mio agio che mi sono persino dimenticato di implementare il valore aggiunto per l’high-end.








Il primo giorno di lavoro, dopo il classico giro di presentazioni, ho preso posto sulla mia scrivania, su cui era appoggiato un telefono fisso nuovo e già programmato. Poi ho ricevuto la visita del collega del reparto EDP che mi ha consegnato un PC portatile nuovo di zecca e un cellulare altrettanto nuovo. Il cellulare aveva la SIM già inserita, era acceso e la batteria era già carica. Ho dovuto soltanto togliere il film protettivo dal display. Nella scatola del computer c’era anche la docking station. Non ci potevo credere: per avere una docking station e lavorare col suo portatile sulla scrivania, un mio ex-collega in Italia era quasi venuto alle mani con quelli dell’EDP. Credo che fornire un telefono carico e pronto all’uso non sia soltanto un gesto di cortesia per un collega nuovo. Credo che sia un modo per esprimere una filosofia di lavoro: quando si offre un servizio a un cliente o a un collega si deve offrire un servizio eccellente, completo. Ognuno deve fare il suo lavoro e soltanto il suo lavoro, dunque non perdere tempo a montare un cellulare. Il collega poi ha detto: “La borsa per il portatile sceglila tu come più ti piace: mi porti lo scontrino e ti verseremo la cifra che hai speso”. Non ci potevo credere, ero senza parole. È tornato a fine giornata a riprendersi i cartoni dell’imballo per smaltirli correttamente. Qui ero addirittura prostrato. Ogni tanto ho paura che sia solo un sogno da cui mi risveglierò. Ormai sono già sei notti che mi addormento e mi risveglio: un sogno sarebbe già finito, vero?








Noi italiani ci vantiamo di essere eccezionali nell’affrontare gli imprevisti, e lo siamo. Gli austriaci impiegano la loro energia per far sì che gli imprevisti non avvengano, mi sembrano più saggi. Tutto in azienda funziona come un cronometro, eppure alle 16,30 un silenzio di tomba mi annuncia che i miei colleghi sono già andati a casa.

Una grande multinazionale ha avviato una ricerca per appurare come mai nella sua filiale italiana e solo in quella vi fosse un abnorme ricorso alle ore straordinarie. I ricercatori hanno stabilito che la preparazione e la produttività dei lavoratori sono esattamente le stesse, se non superiori, rispetto a tutte le altre sedi nel mondo. Non vi sono specificità nazionali nel mercato, nella logistica e nemmeno nei rapporti con la burocrazia. Solo approfonditi colloqui personali hanno rivelato che esiste una perversa sottocultura organizzativa per cui il vicepresidente non può andare a casa prima del presidente, nemmeno se ha finito il suo lavoro. Il vicedirettore non può andare prima del direttore, il capo area non può andare prima del direttore vendite e così via fino all’ultimo fattorino, inchiodato pure lui in ufficio fino alle otto di sera. Allora ci si rovina lo stomaco a forza di caffè, si flirta tra colleghi  e si vaga inutilmente da un ufficio all’altro.








Sono andato a cercare la macchinetta del caffè: qui in Austria è splendente, liscia, illuminata. Non fa rumore, non vibra, non piscia acqua per terra. Non è maleducata e frullona come le nostre. Somministra un espresso che non è dei migliori, ma è costante, efficiente, seria, silenziosa.








Lavoro in Austria, appena qui dietro alle montagne. Uno allenato ci arriverebbe anche in bicicletta. Eppure nominalmente sono un emigrante, visto che attraverso una frontiera. Come molti emigranti italiani coltivo un po’ di sincero odio per il mio paese eppure allo stesso tempo ho il puntiglio quasi maniacale di mostrare all’estero il lato positivo dell’italianità. Dovrò però lavorare molto per imparare a soffocare in gola il riflesso pavloviano: la cialtroneria, la petulanza, la verbosità, lo sgangherato pressapochismo, la mediocrità, il “più o meno”, il “tengo famiglia”, il “ti faccio parlare con un amico mio…”, il “ti serve fattura o facciamo tranquillamente?”, il “sistemiamo poi tutto”, l’accontentarsi, il non essere esigenti con gli altri perché gli altri non lo siano con noi. In questo momento sono come quei cani ben addestrati che tuttavia non possono ancora fare a meno di abbaiare ai colombi. Mi ha aiutato involonariamente un collega che, spiegandomi una strategia commerciale, mi ha detto: “…all’estero, in Italia”. Così mi ha disorientato, mi ho fatto sentire una vertigine. Però mi ha aiutato.








Sono venti anni esatti che vendo all’estero e ci sono abituato: dopo la cena, al momento del caffè, i clienti mi chiedono con più o meno delicatezza come ha fatto l’Italia a cadere così in basso. Un signore siriano formulò così la sua domanda: “Come avete fatto a cadere così in basso se avevate la Lamborghini Miura e il transatlantico Michelangelo”. La Miura era così bella e innovativa da togliere il sonno persino a Enzo Ferrari: venduti ai tedeschi marchio e produzione. La Michelangelo era tra le navi passeggeri quello che il Concorde sarebbe stato anni dopo tra gli aerei passeggeri. Gli esemplari di quest’ultimo contesi dai musei di tutto il mondo, uno sollevato su un piedistallo a dieci metri d'altezza nell’aeroporto di Parigi, persino i ricambi tirati fuori dai magazzini e battuti all’asta fino all’ultima rondella a prezzi di un Picasso (600.000 € per il famoso naso mobile). La Michelangelo noi l’abbiamo svenduta “…perché le crociere non hanno nessun futuro…” per molto meno del prezzo di ferro vecchio all’Iran che ne ha fatto una caserma galleggiante, poi bombardata e affondata in porto durante la guerra con l’Iraq. La Leonardo da Vinci, gemella dell'Andrea Doria,  fu lasciata agonizzare per anni fuori la Spezia e colò a picco per un incendio la cui causa non fu mai chiarita. Non c’è paese di tradizione marinara anche molto inferiore alla nostra che non ne avrebbe fatto un monumento nazionale, prova e simbolo di orgogliosa supremazia.



L’Italia aveva tutte le condizioni di partenza per diventare e restare una superpotenza industriale. Aveva l’energia, aveva la posizione geografica, aveva l’accesso alle materie prime e ai mercati di riferimento, aveva la genialità, aveva il dinamismo, aveva la ricerca scientifica, aveva il gusto, aveva dirigenti e lavoratori esperti. Ha sperperato tutto questo con scellerate nazionalizzazioni, privatizzazioni, seguite poi da rinazionalizzazioni e riprivatizzazioni, che si concludevano sempre con lo stesso copione: svendita, fuga col malloppo e bancarotta fraudolenta. Ha bruciato interi patrimoni economici, industriali e umani. Ha affossato i gioielli, ha difeso invece tenacemente gli orrori come Pomigliano d’Arco e Alitalia. Oggi ci sbattono davanti al naso lo spauracchio dell’immigrazione, che sarebbe la causa di tutto. Ben diversa la realtà: nemmeno quei poveri cristi degli immigrati vogliono più fermarsi in Italia. Ci sbarcano, ma se possono filano via subito verso Germania, Inghilterra o Spagna. Ogni singolo metro che abbiamo perso nella selettiva salita della competizione tecnologica c’è costato un chilometro sulla linea di arrivo dei mercati. Mentre vedo che nonostante tutto per il made in Italy c’è sempre un occhio di riguardo nel resto del mondo, non vedo invece nessuna possibilità per il nostro paese: siamo irrecuperabili. Un sistema economico efficiente non può che essere l’altra faccia di un sistema politico efficiente. Nessuno dei due mi appare minimamente possibile.








Anni fa gli italiani e le italiane erano vivaci, orgogliosi e sempre pronti a protestare. Mi sembra che ormai non ci lamentiamo nemmeno più. In silenzio ci rialziamo, ci togliamo la polvere dai vestiti e ci asciughiamo le lacrime dopo l’ennesimo episodio dell’inarrestabile, eterno stupro nazionale. Non è retorica, ma solo la triste verità: il conto di tutte le spavalde acrobazie contabili e societarie dei furbetti del quartierino arriva sempre e solo a noi cittadini. I titoli Parmalat alla fine sono restati in mano solo ai piccoli risparmiatori, con buona pace delle banche che glieli hanno venduti per buoni sapendo che servivano solo ad accendere il caminetto. Mi chiedono anche questo all’estero: “Ma almeno qualcuno ha pagato?” Mi tocca rispondergli: “Naturalmente no”.

Devo ancora abituarmi a dire anch’io come i miei nuovi colleghi “all’estero” quando si parla dell’Italia. Approfitterò di questo week-end di Pentecoste e mi metterò davanti allo specchio a recitare: “Io vado all’estero in Italia, tu vai all’estero in Italia, egli-ella…” Chissà se mi risponderà a quel punto lo specchio: “Era quello che volevi, no? Volevi anche tu fare la fuga dei cervelli, no? Adesso però devi implementare. Devi portare il valore aggiunto. Devi diventare una persona high-end, perché ora sei all’estero!”



Foto: Palazzo della Civiltà del lavoro, Roma Eur
da
Paolo Landriscina