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Troppo caldo

04/12/16




L’aereo da Mexico City è in ritardo di otto ore, oppure diciotto. Non so. Mi sono imbarcato a Las Vegas che era già sera e non ho mai visto sorgere il sole in tutto questo tempo. O forse sì, non ricordo.


La notte habanera è buia come una bocca di lupo. I fari del taxi illuminano brevemente un angolo, un portone, un bidone di spazzatura sventrato, un cane che dorme. I padroni della casa particular mi aspettano sulla porta.


Mi sveglio la mattina successiva in un quartiere di Habana che conoscevo poco: Centro Habana, per la precisione sono all’incrocio tra San Lazaro san Nicolas. Venendo dal Malecón (il lungomare), il riferimento è l’Hotel Deauville, con l’inconfondibile skyline blu.Stavolta il sole è sorto eccome, e picchia. Habana però sa essere anche tiepida, in certi angoli ombreggiati e ventosi.


Inizio a esaminare queste strade camminando verso l’ospedale Hermanos Amejeiras. Gli edifici sono belli, maestosi e cadenti. Mancano le parole per descrivere le ringhiere di ferro battuto dei balconi, e le loro travi ormai scoperte dall’azione del tempo e del mare. Alcuni dettagli affrescati, i portoni di legno intarsiato. Le serrande sulla strada prodotte in Spagna quasi un secolo fa. Struggenti i palazzi che hanno dovuto essere puntellati dopo il collasso della parte interna. Quasi intatta la facciata, mentre il corpo è sparito e al suo posto crescono alberi.  Quando il vento li fa ondeggiare, sembra da una certa angolazione che dietro le finestre sia in corso una qualche baruffa.


Gli edifici che resistono sembrano aver incorporato la bellezza sognante di quelli che non ce l’hanno fatta. Una passeggiata su queste strade dovrebbe essere obbligatoria per chiunque aspiri a diventare un architetto.In questi pochi chilometri quadrati ci sono alcuni edifici che rappresentano il prototipo dello stile cui appartengono. L’Edificio Bacardi è il miglior esempio mondiale di Art  Nouveau. L’imponente edificio FOCSA, ma siamo già nel Vedado, terminato nel 1956  era in quel momento il secondo edificio in cemento armato più grande del mondo dopo il Martinelli Building a San Paolo, Brasile.

Sempre nel Vedado, c’è L’Hotel Nacional, che ha ospitato tutti gli artisti e attori più famosi da Errol Flynn a Spencer Tracy. Ha ancora gli ascensori originali e uno strepitoso impianto di posta pneumatica con dettagli di ottone massiccio (per i più giovani: un sistema di tubi dove venivano sparati dei bussolotti contenenti documenti e denaro), oltre a qualche chilometro quadrato di ceramiche andaluse originali.


 Guardo queste costruzioni non posso fare a meno di pensare al loro futuro, quindi al loro restauro. Ci sono state novità politiche sia a Cuba sia negli USA: le piccole aperture dei Castro e soprattutto l’ascesa di Bernie Sanders. Socialdemocratico, ma solo perchè la parola comunista è ancora proibita. 


Si può sognare, e finanziare, un modello di restauro che tenga in conto le esigenze di tutti? Della municipalità che non riscuote quasi tasse, ma deve garantire infrastrutture e servizi, attraverso reti in alcuni casi ottocentesche. Degli esperti che reclamano un restauro corretto anche se costosissimo a causa dei materiali originalmente impiegati, pregiati e provenienti dall’Europa. Infine degli abitanti, da generazioni eroici curatori di queste meraviglie che hanno mantenuto in piedi da soli e senza l’aiuto di nessuno e che non meritano di essere riposizionati in anonimi palazzoni lungo Avenida Rancho Boyeros, a diciotto chilometri dal mare. Si deve a loro, al fatto che ne sono stati per moltissimi anni gli usufruttuari gratuiti a non i proprietari e alla mancanza di materiali e mezzi se questi palazzi non sono stati modificati, ritoccati, stravolti.


 C’è poi chi pensa che la soluzione migliore sarebbe di non fare nulla, e lasciare che questi edifici, quasi tutti orgogliosamente firmati sulla facciata dai loro architetti ritornino al mare sotto forma di sabbia e di ossido ferroso, che si consumino finché le impalcature di legno montate per sostenerli sorreggano unicamente se stesse. E chi vuole ammirarli, che venga adesso.

Ho visto la prima nave da crociera americana entrare nella baia, un fatto storico. A bordo alcuni esuli, per la prima volta di nuovo a Cuba. Tra loro, immagino, alcune spie. Ho visto i turisti scendere nel nulla di Habana Vieja ed essere caricati su bici taxi-verso case private, dove a gruppi di cinque o sei ricevevano il pranzo. I capitani di queste navi hanno preso l’abitudine di sparare alla partenza una salva di quaranta o cinquanta colpi col cannoncino di segnalazione. Distruggendo ogni mio tentativo di siesta e accentuando l’impressione di trovarsi in un paese in guerra non dichiarata. Ci sono i marciapiedi sfondati, i balconi crollati, le facciate puntellate. Ci mancava, appunto, il cannoneggiamento.


San Nicolas, come pure Galiano, è stata asfaltata per l’arrivo di Obama che ci è passato per recarsi all’Hotel Nacional. Non è stata una visita di Stato, ma una visita ufficiale. La differenza? che Raúl Castro non è andato a riceverlo all’aeroporto.  Intollerabile sarebbe stata per l’elettore americano una foto di Obama che stringe la mano di Raul Castro. 


Brucia ancora l’onta di Playa Giron (Baia dei Porci): sconfitta militare, ostaggi sequestrati e riscattati. Se invece di reagire bloccando l’esportazione di Coca Cola verso Cuba avessero analizzato con attenzione le ragioni della sconfitta, ne avrebbero potuto evitare una lunga serie: Saigon, Managua, Mogadiscio. Tutte incredibilmente uguali: terreno carsico, abbondanti corsi d’acqua, giungla, le immancabili risaie impossibili da distruggere. E poi un esercito di contadini, enormemente più combattivi dei marines, che lottano al pugnale fino all’ultimo. Ancora oggi, un’eventuale invasione militare di Cuba diventerebbe un assoluto incubo per gli USA. Di sicuro più facile invaderla di dollari.


Obama ha mangiato in un ristorante consigliatogli da Celine Dion, mentre per dormire ha optato per l’Hotel Nacional al Vedado. Scelta direi infelice, non solo perché è a pochi metri dalla neo ambasciata Usa, ma soprattutto perché fu sede nel 1946 della Mafia Conference, veri e propri stati generali della mafia con tanto di delegati, programmi e votazioni. Vince Lucky Luciano e la sua linea di puntare solo sul gioco d’azzardo e non sulla droga (altri tempi). Il tutto con la benedizione del governo USA grato, perché Cosa Nostra ha protetto i porti americani durante la seconda Guerra Mondiale. La prima trattativa Stato-Mafia.


In questo momento, inevitabilmente tutti guardano agli USA e aspettano un aiuto. Chi s’illude che sia imminente un nuovo piano Marshall per Cuba farà bene ad aprire gli occhi. Un piano Marshall era possibile negli anni '40 dove i consumi crescevano in USA dal 1938 al 1949 del 70% contro il 3% europeo. Significa che una sola briciola caduta dal banchetto USA poteva alimentare il motore europeo.  Oggi la crescita in USA c’è ma si misura in un misero +2,4 % (dato 2015) ed è ottenuta quasi esclusivamente attraverso spese militari e una costante migrazione interna di imprenditori e lavoratori.


Chi afferma che, come indicano gli studi di settore, proprio qui ad Habana c’è la crescita immobiliare più forte in tutto il mondo dovrebbe ricordare che come dicono gli americani, esistono tre tipi di bugie: “Le bugie, le fottute bugie e la statistica”. Le quotazioni non possono altro che crescere dato che partivano da un livello totalmente irrealistico, più o meno dallo stesso livello di Vicolo Corto nel Monopoli. Dovrebbero inoltre provare, costoro, a cercare un sacco di cemento e qualche mattone ad Habana.


Gli investitori USA non sono propensi a investire in paesi instabili, con burocrazie e sindacati troppo forti. Non occorre cercare lontano, l’Italia ne è un esempio, trovandosi solo al 29° posto tra i paesi che hanno beneficiato d’investimenti USA, parecchio indietro anche rispetto a Olanda e Irlanda.


Cambierà Cuba, non cambierà? E che ne so! Gli Ayatollah Castro dovevano cadere nel 1992 con l’abbandono da parte dei sovietici, poi mille altre volte con Elian Gonzalez e poi con Clinton. Bisogna dire che Cuba è stata molto più brava ad agitare lo spauracchio USA di quanto non siano stati gli USA ad agitare lo spettro cubano. Tutti quelli che hanno previsto la caduta degli Ayatollah hanno sbagliato, in particolare gli undici presidenti USA che, chi più chi meno, avevano scommesso sulla fine dei Castro: Dwight Eisenhower, John Fitzgerald Kennedy, Lyndon Johnson, Richard Nixon, Gerald Ford, Jimmy Carter, Ronald Regan, George Bush, Bill Clinton, George Walker Bush, Barack Obama.


Ormai in Italia nessuno mi chiede più di Cuba, tutti leggono che sono arrivati gli Stones e Obama e concludono che Cuba è cambiata. Sorrido, e non mi dispiace di sentirmi liberato da questa responsabilità di opinionista. 

Mi concentro per un paio d’ore sulle nuvole che arrivano sul Malecon, così incredibilmente basse, veloci, opache, sfilacciate, irrequiete. Poche ore fa hanno sorvolato la Florida o la Louisiana. Sono così diverse dai placidi batuffoloni abbaglianti dell’Oriente di Cuba, che galleggiano sugli Alisei rotolando continuamente su se stesse.

Mi riempio dell’odore dolciastro della canna da zucchero, che si sente fin dentro ai quartieri periferici. Lo stesso che mi aveva assalito scendendo la scaletta dell’aereo 24 anni fa.


Torno ai miei edifici. L’historiador della città Eusebio Leal, un Renzo Piano cubano, è praticamente più famoso degli stessi Castro e fa le acrobazie con le poche risorse che gli arrivano dall’estero per salvare Habana. A parte il restauro integrale di Plaza Vieja, ha piazzato singoli colpi magnifici come il Focsa e Palacio de las Cariátides, spettacolare edificio in stile eclettico costruito del 1924. Ma non può fare nulla contro l’inarrestabile degrado di tutto il resto.


C’è il paradosso di un governo che dotato quasi ogni cittadina zuccheriera di provincia di un colorato Bulevar pedonale e che invece ha lasciato letteralmente crollare interi isolati del centro storico più bello dell’America latina. Che non ha minimamente gratificato quello che potrebbe essere il suo più grande contenitore di dissenso.


Mentre sono seduto sul tufo bollente del Malecón si fanno avanti tre ragazze i cui occhi ricordano la selva al mattino, la cui pelle rappresenta tre delle infinite sfumature tra il bianco e il nero. Il cui anno di nascita inizia col due. Spiego loro diplomaticamente che ho mal di testa questo pomeriggio. Iniziamo così a parlare della scuola, della loro vita in una barbacoa (soffitta) arroventata dietro al quartiere cinese. La famiglia allargata, fratellini impertinenti. E vogliono sapere della mia vita. Andiamo a bere qualcosa, io birra e loro Cola, sotto lo sguardo ammiccante dei camerieri. Ci salutiamo dopo diverse ore.  Mi chiedono alla fine con le loro labbra di ciliegia se il mal di testa mi è passato nel frattempo.


Su Concordia, al mattino presto, assisto a uno degli spettacoli più divertenti: arriva il professore di educazione fisica, transenna una fetta di strada con uno spago annodato. E fa lezione! I bambini indossano l’uniforme, solo un paio di loro possiedono i calzoncini e le scarpette da ginnastica. La scuola è gratuita, come lo sono l’asilo nido, il liceo, l’università, la casa, la salute e il dentista. E’ probabile che questo abbia a che fare con l’incredibile longevità degli Ayatollah di cui si scriveva sopra. Non c’è una palla (meglio, finirebbe inghiottita in qualche voragine sul marciapiede) non c’è un attrezzo. Non c’è nemmeno un gioco regolato. Solo salti, giravolte grida. I passanti, rassegnati, aggirano il blocco e prendono Virtutes. Vengono continuamente organizzati giochi, che però non iniziano mai.


Che sia proprio questa la metafora…. C’è nell’aria qualcosa che sta per cambiare, è ovvio che stia per cambiare, tutti vogliono che cambi. Eppure ogni mattina, al sorgere del sole, mi sembra che il cielo e il mare e le strade e le case dicano: “Cambierà, ma non sarà oggi….”.Penso a tutti quelli che mi diranno: “devo venire a Cuba prima che cambi”. Dopo una ventina d’anni che promuovo, nel mio piccolo, i viaggi a Cuba questa volta risponderò: “Non è cambiato niente, e poi fa troppo caldo.”


Il capitano è fuori a pranzo (2)

29/05/11



7° giorno
Se penso alla terra, e lo faccio molto di rado, ci penso solo in termini di passato e mai in termini di futuro. Riesco a vedere solo quello che è stato, non vedo quello che sarà. Ho chiamato casa col telefono satellitare soltanto una volta. E solamente, lo confesso, per non sfigurare di fronte all'altro padre a bordo che chiama sua figlia tutti i giorni. La alla mia giornata è dominata da altri pensieri: “Girerà finalmente il vento oggi? Riuscirà Paola a cucinare una pastasciutta?”

8° giorno
Abbocca un Dorado di sessanta centimetri, questa volta il pesce è in buona salute. La sentenza è eseguita per bicchiere di Rum nelle branchie al posto delle randellate sulla testa che sono incivili e potrebbero ammaccare la coperta. E poi dicono che i superalcolici non fanno male! Mentre la vita se ne va dal suo corpo sento un brivido solenne lungo la schiena, ma non ho nessun rimpianto. Dopo tutto è l’unica cosa che togliamo all’Oceano da quando siamo partiti. Una breve sosta in forno e il pesce è già nei nostri piatti. E’ passata un’ora dalla cattura.

9° giorno
Questo Oceano è Il solo luogo dove sono stato di cui posso dire: “Lo potrò rivedere in un altro momento della mia vita e non sarà cambiato”. Lo vedo oggi come si presentava quando fu creato, poi quando fu solcato dai primi navigatori, poi dalla ciurma di Colombo. Lo vedo oggi come lo vedranno, lo spero, i miei discendenti. Nient’altro che vento, nuvole e onde.
Questo Oceano è Il solo luogo dove sono stato che mi fa sentire libero. Libero di una libertà che non è liberarsi di qualcosa. Libero di una libertà che è aggiungere qualcosa: la consapevolezza che è ancora possibile vivere senza piani, senza soldi, senza assicurazioni, senza banche, senza automobili. E’ qualcosa che mi cresce dentro e quindi può anche fare un po’male, come un nuovo dente che si fa strada in mezzo a gli altri, come un succo di rabarbaro amaro che scende giù nella gola.
Questo Oceano è il solo luogo dove sono stato che mi ha fatto sentire molto, molto vicino a vedere il volto di Dio.

10° giorno
Durante la giornata ci fa visita un branco di delfini, che però prosegue subito la sua rotta verso sud. Finita la mia guardia notturna, mi ritiro in cuccetta. Nel dormiveglia mi assale la sensualità. Me l'aspettavo, mi chiedevo anzi quando sarebbe successo. Dapprima è vaga, indefinita. E’ voglia di abbracciare qualcuno, di avere un contatto, di accarezzare mio figlio in mezzo alle scapole. Poi diventa più definita: in un breve sogno investo alcuni stipendi per una notte con Ruby Rubacuori, su cui si era scherzato durante il giorno. Inevitabile a questo punto il passaggio al controllo manuale che mi regala un sonno lungo e delizioso. Ruby può attendere. La terra più vicina (si fa per dire) è la Nuova Scozia. Fino a pochi giorni fa non ne avevo mai neppure sentito parlare.

11° giorno
I delfini avvistati ieri portano buone notizie. Arriva di notte nel turno mio e di Andrea, che siamo i due smanettoni del gruppo, il tanto atteso cambio di vento. Con sorprendente rapidità allenta la sua morsa boliniera e gira al gran lasco. Otteniamo dallo skipper (lui non sale nemmeno in coperta, è l’uomo che vede e sente attraverso la vetroresina) il permesso di lanciare Penelope 1 a tutta vela e iniziamo a ridiscendere con orgogliosa sicurezza le onde che ci avevano fatto soffrire di bolina. Se la bolina è una strada di montagna piena di buche, il gran lasco è un’autostrada a otto corsie: dritta e veloce. Procediamo a nove nodi, poi dieci, alzando due baffi di schiuma fosforescenti di plancton che arrivano compatti fino all’altezza del boma. La barca vola sospesa su un gigantesco cuscino di luce al neon, Il plancton è così luminoso stanotte che i grumi più brillanti ci appaiono come navi all’orizzonte.

12° giorno
Al risveglio, sembra che il cambio di vento abbia dato alla testa a qualcuno: siamo fermi in mezzo al mare, e dallo stereo di bordo esce “Shine on your crazy diamonds” dei Pink Floyd a un volume impossibile. Scendo dalla cuccetta e cerco di capire chi abbia preso il comando e con quali intenzioni. Invece sono solo in corso le grandi pulizie dopo undici giorni di bolina. Si arieggiano le cabine, si pulisce e si cambiano le lenzuola. Un’ora dopo siamo di nuovo in rotta. Nel pomeriggio un branco di delfini inizia a seguirci. Due esemplari adulti rimangono a nuotare tranquillamente nella nostra scia, come due mamme che chiacchierano tra loro ai giardinetti. I piccoli si scatenano sotto la nostra prua. Vanno a cercare l’onda di pressione che produciamo col nostro movimento in avanti. Incrociano più volte a destra e a sinistra, poi virano bruscamente e sfrecciano verso poppa mostrandoci la pancia bianca, probabilmente uno sberleffo. Instancabili, riguadagnano la prua scrutandoci con attenzione. Noto che sono molto interessati ai nostri movimenti e ai colori dei vestiti che indossiamo. Tutti insieme si producono in un repertorio di salti: quelli in alto e soprattutto quelli orizzontali: passano da un’onda all’altra nuotando a velocità folle. Vederli arrivare verso la barca con le loro traiettorie tese e le schiene grigie è uno spettacolo che mette quasi paura, sembrano siluri lanciati verso di noi. Ci accompagnano per tutto il pomeriggio e anche durante la notte vediamo chiaramente le loro pinne tagliare lo strato di plancton. In tutte queste ore non abbiamo gettato in acqua alcun cibo, loro ci seguono esclusivamente per gioco. Oppure, chissà, forse vanno dalla stessa nostra parte e vogliono fare un pezzo di strada assieme.

13° giorno
Tredici giorni fa i miei compagni di avventura erano dei perfetti sconosciuti che trascinavano i loro bagagli sul pontile di St. Martin. Oggi so delle loro speranze e delle loro delusioni più di quanto non sappia di molti miei amici sulla terraferma. Dopo il mio turno, scendo sottocoperta a compilare il diario di bordo, mi cambio, bevo un the e mi lavo i denti. Ma non posso andare in cuccetta se prima non ho dato un’occhiata fuori e non ho visto che gli altri due compagni di guardia stanno bene.

14° giorno
Ormai siamo entrati nel clima temperato e navighiamo nuovamente di bolina. Le notti sono più cupe e plumbee, diverse da quelle caraibiche. Riprendiamo a sbattere sulle onde. Alle quattro e mezzo di mattina di oggi non è il solito mortaio quello che mi arriva ma un razzo Katyusha con una traiettoria orizzontale che si schianta sulla fiancata vicinissimo alla mia faccia. Mi sveglio di colpo con una sensazione di catastrofe, ma vedo che tutto è a posto e i due di turno chiacchierano tranquillamente. E’ stata un’onda parecchio più ripida delle altre che ha colpito la fiancata.

15° giorno
Freddo, pioggia. Mare scuro, cielo coperto con luce cangiante. Osservo per molte ore il volo magistrale delle sule (piccoli gabbiani color cenere). Senza muovere neppure una piuma, volteggiano a pochi centimetri dalla cresta dell’onda e scendono giù nel cavo. Del tutto indifferenti a noi nella loro eterna ricerca di cibo.

17° giorno.
Horta ci appare intorno alle diciotto, entriamo nel porto a mezzanotte. I miei primi passi sul molo sono difficili, il corpo non è più abituato a camminare. Si cena e si apre una Magnum di Champagne che portiamo con noi da St. Martin che rappresenta il premio per questa rapida traversata di cui siamo orgogliosi. E’ andato tutto bene, l’Oceano è stato più clemente di quanto mi aspettassi.

28 aprile 2011
Ogni mio muscolo è dolorante per le camminate. Solo oggi mi sono reso conto di essere davvero arrivato, di essere tornato nel mondo. E’ successo quando ho compiuto un gesto che era ormai sepolto nella mia memoria: attraversare la strada. Era così sepolto che ho esitato almeno dieci minuti sul marciapiede prima di trovare lo spazio giusto. Percepisco il calore salire dai cofani delle auto e l’odore dei freni pizzicarmi il naso. Riprendono i miei starnuti allergici.

Foto: 18 aprile 2011, autoritratto.

Il capitano è fuori a pranzo

24/05/11

Ho deciso per le vacanze dei miei quarant’anni di fare qualcosa di pericoloso. Turismo sessuale a Bangkok? No, non così pericoloso. Ho attraversato l’Atlantico a vela da St. Martin (Caraibi) a Horta (Azzorre, Portogallo). 2451 miglia, 17 giorni in mare attraverso 4 fusi orari. Come i calci di punizione di Maradona, la nostra rotta non ha seguito la linea retta, ma una curva verso nord. Inizialmente lungo la costa USA verso le isole Bermuda, poi sotto la Nuova Scozia e infine dritto verso le Azzorre. A causa della curvatura terrestre, la parabola è più breve della linea retta. Un concetto apparentemente paradossale e difficile come il suo nome: rotta ortodromica. Del tutto inutile chiedermi perché ho attraversato l’Atlantico a vela, non lo so neppure io. L’ho fatto perché mi andava.
Non sono il primo marinaio che ritorna a terra e tira fuori dal suo sacco gli appunti che è riuscito a prendere in mare. Tutti uguali, i marinai. Tormentano di correzioni i poveri fogli di carta. Poi salgono al faro, affondati in un bavero, e scrutano il mare. Bestemmiano in tutte le lingue che conoscono e in quelle che hanno imparato tra bettole e bordelli. Bestemmiano per non riuscire a trovare in nessuna di queste lingue le parole adatte per descrivere in modo in cui la schiuma sferzata dal vento si precipita verso il cavo dell’onda e si separa in tante striature simili a quelle della tigre che gonfia la schiena prima di spiccare il balzo e piombare in coperta. Bestemmiano per non riuscire a descrivere il fischio del vento, squarciato dai frangenti, che fa accapponare la pelle del timoniere più della campana a morto. Un rumore agghiacciante che non ha uguali in nulla che si possa udire sulla terraferma. Qualcuno che ha fatto la non invidiabile esperienza di udirli entrambi l'ha paragonato all'ululato di un branco di lupi così affamati da aver già iniziato a mordersi tra loro alle anche. Oppure alle sciabolate della tempesta di neve nei crepacci sull'interminabile parete nord dell'Eiger.
Tutti uguali i marinai, cedono a questo punto alle tentazioni del vino e del plagio. Non c'è un altro settore della narrativa che abbia conosciuto così tanti processi di questo tipo. Come se le tempeste non fossero tutte uguali e la cosa importante nel momento fatale fosse descriverle e non sopravviverle. I polmoni dilatati nello sforzo impossibile di respirare attraverso le nuvole di schiuma vaporizzata. Gli occhi brucianti e quasi accecati, sbarrati sulla catastrofe imminente. I piedi malfermi sulla coperta e, migliaia di metri più sotto, su immensi cimiteri di marinai.
La paccottiglia è già tutta venduta, i soldi quasi finiti. Il libro non prende forma. La terra non ha più senso. Finalmente arriva un nuovo imbarco, si parte.
Che le tempeste del mare non sono nulla in confronto a quelle dell’anima.

7 aprile 2011
St. Martin, m’imbarco su Penelope 1. Lei è bellissima, veloce. Gli armatori Eugenio e Paola sono molto professionali e simpatici. Non potevo aspettarmi di meglio per questa traversata. Ora l’Oceano non è più un sogno lontano, ma è lì dietro al molo. E’ immenso, concreto, e mi aspetta. Inizio a chiedermi: “Cosa sto facendo?”

8 aprile 2011
Completato l’equipaggio, si fa il briefing. Dopo le informazioni sulla navigazione, lo skipper butta lì qualcosa che tutti i marinai sanno bene: se un membro dell’equipaggio morisse a bordo lontano da terra (tutta la nostra rotta è lontana da terra) lui cercherebbe via radio una nave munita di cella frigorifera disposta a caricare il corpo. Se non vi riuscisse entro pochi giorni, metterebbe il corpo in un sacco da spi (una vela) e lo seppellirebbe in mare per ovvi motivi sanitari. Il sacco dello spi diventa l'oggetto di lazzi e battute da parte dell’equipaggio, ma Eugenio ha colpito nel segno: tutti capiscono che non stiamo partendo per una vacanza.

1° giorno
Si parte, finalmente, e la mia ansia svanisce appena metto mano a drizze e scotte. Per tutto il pomeriggio bordeggiamo in vista della terra, al tramonto l’orizzonte diventa solo liquido. Entrano in vigore le regole del briefing e l’ora GMT. Sarà questa a darmi nei primi giorni i maggiori problemi. In tutti i mari del mondo vige sulle navi l’ora di Londra. E’ una norma che permette di darsi appuntamenti, di calcolare rotte e posizioni. Il problema è che ci troviamo a -4 ore da quell’orario e quindi il sole sorge e tramonta secondo l’ora locale. Insomma, non ci capisco più niente. Ho affrontato senza grossi problemi anche jet lags anche molto pesanti, ma questo è un disorientamento completamente diverso. Sono di turno, insieme ad un compagno, dalle 12 alle 16 e dalle 24 alle 04. Le ore al timone sono le più belle, me le godo fino in fondo. Il resto del tempo lo passo in cuccetta a cercare di riposare, a mangiare e a mettere in ordine le mie cose. M’impongo di essere un membro di equipaggio affidabile, controllo ogni cosa più e più volte. Cerco di non intralciare gli altri. La navigazione è piuttosto scomoda, si bolina mure a dritta, la barca è costantemente inclinata e ogni tanto lo scafo sbatte sull’onda. Da fuori il colpo è solo fastidioso, ma dalla mia cuccetta il rumore è amplificato dalla struttura interna ed è una vera e propria esplosione.













2° giorno
Splendida nottata. Le nuvole basse e bianche degli alisei mi passano veloci sulla testa. Vedo anche un arcobaleno notturno del tutto uguale a quello diurno. Solo che è illuminato dalla luna anziché dal sole e quindi è nei toni del grigio. Insieme agli altri timonieri, inizio a conoscere Penelope e a capire come tirarle fuori la massima velocità. La timono come timonavo il mio vecchio 470. Concentrato, rivolgo lo sguardo solo al segnavento in testa d’albero e alle onde che si avvicinano nel buio davanti alla prua.

3° giorno
La mattina, quando rivedo il sole, non posso fare a meno di chiedermi: “Dove sono?” Non trovo nessuna risposta. Sono in un continente liquido, in effetti non sono da nessuna parte. E’ davvero un’altra dimensione. Per buona parte della giornata siamo accompagnati da due uccelli coda di paglia. Specie di piccoli gabbiani con un filamento giallo attaccato alla coda. Sono incuriositi da noi e si lasciano ammirare mentre giocano e pescano. Nel pomeriggio catturato un simil-barracuda di 90 cm, dalle stupende striature azzurre. Viene rilasciato, non è commestibile in quanto portatore di una neurotossina su cui non posso essere più preciso. Ammiro i suoi occhioni neri e vi scorgo, più che lo smacco di essere stato ingannato da un amo avvolto in semplice carta stagnola, un interrogativo: “Cosa cavolo ci fate voi qua in mezzo?” In fondo sono sollevato che l’amico se la sia cavata con il certificato medico.

4° giorno
Ho provato molte volte la solitudine nella mia vita. Per necessità, più spesso per scelta. Davanti alla vetrina di un negozio chiuso la domenica pomeriggio. Su un treno oppure su un aereo alla fine del mondo. Ma nulla è come questa solitudine. La solitudine di questo oceano è incommensurabile. Si attenua solo se penso che forse questi elementi non sono contrari a lasciarci passare. Le nuvolette bianche che volano sopra il nostro albero e i continui balzi dei pesci volanti mi fanno pensare che l’oceano è indifferente, ma non contrario, al nostro passaggio. L’oceano è maestoso, silenzioso, bello. Ma non ostile, almeno fino a qui.

6° giorno
Primo mare grosso, il vento rinforza e la prua sbatte sulle onde. La mia cuccetta è dalla parte “sbagliata” cioè in alto e inclinata. Anche quando riesco a prendere sonno in questa posizione scomoda, devo fare i conti coi boati dei colpi sulle onde. Sono colpi di mortaio che mi esplodono in mezzo ai piedi e interrompono il sonno faticosamente conquistato. Se durante il sonno veglio, durante la veglia dormo. I due stati si mescolano ormai, e io stesso non so più distinguerli. Eppure riesco a fare tutto quello che devo fare, solo con più lentezza, attingendo a una riserva energetica insospettabile. Navigo da molti anni e non ho mai avuto la paura tipica di chi si avvicina per la prima volta alla barca: di avere sotto di se migliaia di metri di acqua e solo uno scafo a tenerti a galla. Allo stesso modo chi corre in moto non ha paura della velocità e chi fa paracadutismo non ha paura dell’altezza. Tuttavia oggi in cuccetta, mentre sento l’acqua scorrere lungo lo scafo a pochi centimetri da me e l'ossatura di Penelope 1 che geme sommessamente, penso ai versi di Omero: “Tra la vita e la morte di un marinaio ci sono due dita di fasciame”.

(segue)

Foto: 12 aprile 2011, il tramonto da Penelope 1

Ma dove sei passato, Manureva?

21/11/10








Alain Colas è un navigatore francese nato il 16 settembre 1943 a Clamecy e scomparso il 16 novembre 1978 al largo delle Azzorre. La sua innovazione è stata così grande che il viaggiare da un continente all’altro sospinti dal vento, senza consumare energia e senza produrre emissioni si divide in un “prima di Colas” e in un “dopo Colas”.






Deriso e vilipeso, non di rado accusato di megalomania dai suoi contemporanei, ha pagato un prezzo altissimo al fuoco sacro della sua visione e alla diffidenza del suo prossimo. La sua fine è stata spettacolare e grandiosa proprio come la sua vita. Una fine, amplificata dai media, che è divenuta la cattiva coscienza di tutti i suoi critici.













Il liceo della comunicazione a Nevers è stato intitolato a Alain Colas. A Clamecy, una statua di bronzo del navigatore è stata inaugurata nel 2006. Molte città in Francia hanno dato il nome di Alain Colas a una strada o a una piazza.


Anche le storie tristi possono concludersi in canzone. Alla fine di un incubo marittimo di sinistra memoria, Alain Chamfort s’interrogava: “Ma dove sei passato, Manureva?” La melodia non è brutta e le parole (di Gainsburg) non hanno niente di stupido.

Trentadue anni più tardi, il ritornello risuona ancora alle nostre orecchie e la domanda resta sempre senza risposta. Come un’avventura senza indomani ruminata da due amanti stanchi, come il brutto sogno di un bambino durante la notte, Manureva è un dispiacere che s’inghiotte in silenzio.

Per qualche giorno la speranza si è aggrappata a un relitto introvabile. Il tempo per offrire ai falsari la soddisfazione dei loro bassi istinti e ai necrofagi il piacere di superare l’ultimo appello.

Che cosa non si è letto e sentito a proposito della sparizione di Alain Colas e del suo trimarano Manureva (uccello del viaggio, in polinesiano)! Dal suicidio calcolato alla fuga programmata, le supposizioni più azzardate sono state fatte. Senza ritegno e spesso senza pudore, i radioestesisti hanno agitato i loro pendoli e gli indovini hanno rigirato le loro carte. Si è spulciato nei pacchetti di lettere anonime e si sono ritrovati in mare quantità di messaggi nella bottiglia.

Il personaggio prestava certo il fianco alle elucubrazioni di ogni specie, ma col passare dei giorni il cattivo gusto prende molto velocemente il sopravvento sulla pietà. Per meglio approfittare di un mito abbattuto troppo in fretta e sfruttare l’immagine di un eroe già privato d’identità, i mercanti di sogni si sono affrettati a intessere a colpi di superlativi i loro lenzuoli di menzogne e di calunnie.

La verità, invece, era limpida. Il 17 novembre 1978 alle 17:00, Alain Colas comunica un’ultima volta la sua posizione e lancia un ultimo appello di soccorso “Sono al centro di un ciclone, non c’è più cielo, non c’è più cielo!”

Per quanto disperato, questo grido non ha suscitato un’immediata reazione. A quell’epoca, quando gli apparecchi di telecomunicazione erano ancora utilizzati a fini tattici per ingannare l’avversario, anche i marinai più avveduti hanno preso l’abitudine di diffidare di possibili bluff.

Tuttavia in questo caso, dopo un momento di dubbio, anche gli scettici si convincono, poiché quel giorno le condizioni meteo lasciavano poca speranza. La potenza delle raffiche di vento registrate nel settore del supposto naufragio faceva effettivamente credere il peggio. Di fatto, però, le ricerche non cominceranno seriamente che dopo l’arrivo dei primi della gara a Guadalupe.

La posizione del più mediatico dei concorrenti della Route du Rhum, partita dodici giorni prima da Saint Malo era evidentemente difficile da valutare. L’ultimo punto, 36°5’ di longitudine ovest e 35°5’ di latitudine sud si rivela presto aleatorio. Nel primo pomeriggio del 17 novembre, l’equipaggio di un aereo da ricognizione si era sorpreso di costatare che Colas e Manureva filavano a tutta velocità, laddove Olivier de Kersauson, il suo più vicino inseguitore, avanzava prudentemente a secco di vele.

Fatto curioso: nello stesso momento in cui i soccorritori si rassegnano, la Francia nel suo insieme si degna di sperare. In pochi giorni, l’impressionante e patetica caccia al navigatore prende l’ampiezza di una catastrofe nazionale. In un ultimo sussulto di speranza, François Mitterrand reclama dalla tribuna dell’Assemblea Nazionale che si prolunghino ancora un poco le ricerche.

In occasione di una delle sue ultime traversate, Alain Colas non aveva delle immagini troppo belle per rendere conto degli elementi che presto avrebbero causato la sua perdita. ”I colpi del mare si abbattono sugli scafi laterali, le onde e i frangenti volano fino all’altezza di metà albero. La coperta è quasi sempre sott’acqua e io devo lottare, raffica dopo raffica, per mantenere la rotta”.

Lo sprinter degli oceani si era fissato un programma ambizioso, e non lo ha mai ridimensionato, senza dubbio spinto dal suo incorreggibile gusto per l’eccesso.

Alain Colas era un navigatore pressato. Troppo pressato, senza dubbio. Una specie di extraterrestre sbarcato in un territorio sconosciuto. Per lui le cose del mare non potevano che declinarsi in termini di magniloquenza e di superlativi. Un amante dei grandi spazi che si è applicato durante i dieci anni della sua esperienza salata a bruciare le tappe, come per meglio scusare la sua ignoranza e la sua incompetenza originali.

“Il varatore di cattedrali”, i cui progetti megalomani erano sempre aspramente criticati, non è nato marinaio. Tutt’altro. E’ cresciuto nella piccola città di Clamecy, dove i legami di parentela con il Capo Horn sono più o meno gli stessi che uniscono una lumaca di Borgogna a un ippopotamo del Mozambico. Alain Colas ha conosciuto un’infanzia senza problemi e ha seguito studi senza macchia.

Ha poi raggiunto il paese dei navigatori di lungo corso al termine di un itinerario il cui carattere tortuoso e inatteso non è evidentemente senza rapporto con la personalità di colui che si rivelerà il più ambizioso e il più arrogante di tutti.

L’aneddoto ha fatto il giro di tutti i porti del pianeta, accompagnato da sorrisi e toccate di gomito. Nel 1965, il laureato in inglese legge un piccolo annuncio su “Le Monde”: “University of Sidney, department of French, lecturer wanted”. L’occasione è troppo ghiotta e il malinteso troppo evidente. Alain Colas manda il suo curriculum senza immaginare nemmeno per un secondo che il lecturer in questione significa maestro di conferenze e non già lettore come la sua ingenuità (o la sua vanità?) gli avevano suggerito per errore. Il conto alla rovescia è iniziato.

L’11 gennaio 1966 lo studentello lascia la Francia. Non ha certo i soldi per un biglietto aereo, così si procura un passaggio a bordo di un cargo misto. In Australia lo attende una brutta notizia, gli spiegano qual è effettivamente il contenuto della mansione. Colas non ha i soldi per ritornare in patria, ma il personaggio non è di quelli che si arrendono tanto facilmente. Sa convincere, e soprattutto è molto fortunato: all’Università non ricevono nessun’altra candidatura. Qualche settimana più tardi il posto è suo.

A Sidney primo contatto con la vela, sport nazionale in Australia. Ogni famiglia ha una barca a vela, mentre non tutte possiedono un’automobile. Un vicino lo porta a navigare sulla sua piccola barca a vela, poi gliela lascia usare tutti i week end quando vede che lo straniero impara in fretta. Colas è entusiasta. Scriverà: “Fu il colpo di fulmine. La vela è uno sport appassionante, aureolato dal mistero delle sue parole esoteriche e di una meravigliosa possibilità di giocare con lo spazio e con il tempo.”. Il seguito, ancora una volta, contiene tutti gli ingredienti della perfetta success- story e risponde a una logica quasi matematica. Venti mesi dopo il suo primo bordo, Alain Colas è un accettabile membro di equipaggio.

Nel 1967 è anonimo alla partenza della Sydney-Hobart, una delle regate più dure del mondo, e secondo all’arrivo. Il vincitore della gara? Eric Tabarly, la star velica del momento, e la sua barca avveniristica Pen Duick II. Inizio di un’amicizia tra il militare e il piccolo prof. e di una crociera in Nuova Caledonia che suggella definitivamente il destino del neofita.

Testimone privilegiato è Olivier de Kersauson, anche lui tra i migliori navigatori francesi. Questi ha avuto poi molte volte l’occasione di dimostrare, non senza ironia, gli anni luce che separano, in quel momento preciso, l’apprendista campione dai suoi compagni di rotta: “In mare lui diventa un personaggio delle sue conferenze. Noi passiamo il tempo a sfotterlo. Non è mai stato in Bretagna, non ha niente a che vedere con il nostro clan. Ne abbiamo fatto un cuoco, ma com’è difficile abituarsi a lui. Ci dà ai nervi. Scrive il giornale di bordo, figuriamoci! Colas non fa nulla per appartenere al clan dei navigatori bretoni, non ne impara lo slang e non porta nemmeno la barba d’ordinanza, ma improbabili basettoni da ufficiale prussiano. E’ però sufficiente il tempo di una tempesta come generalmente se ne incontra una sola nella vita per la pura e semplice ragione che essa non si degna di accordare nemmeno ai più temerari la minima possibilità. Il marinaio d’acqua dolce viene riconosciuto degno di lottare insieme ai migliori. Kersauson sottolinea: “Dopo aver visto il peggio del mare e averlo domato, tornammo invincibili. E anche Colas.” Seguito del film, proiettato a velocità accelerata: Colas rientra a Parigi nella primavera del 1968, ignora completamente le barricate del maggio francese e ritrova Eric Tabarly, occupato a preparare la sua nuova barca.

Pen Duick IV è un trimarano rivoluzionario con hydrofoil (appendici alari sommerse) che immediatamente eccita la fantasia di Colas. Lui non dispone di alcuna notorietà e non possiede nessuna fortuna. Nonostante questo, non gli serviranno più di ventiquattro mesi per diventare solo e unico proprietario di questo multiscafo che non gli era stato promesso.

Sotto il comando di Tabarly, Pen Duick IV conosce numerosi fallimenti tra cui un abbandono nella Transat del 1968 e un disalberamento. Snobbato dagli organizzatori della transpacifica Los Angeles- Honnolulu, ancora contrari ai multiscafi, lui corre comunque come franco tiratore e arriva in porto diciannove ore davanti al vincitore ufficiale. Anche Colas è della festa, persuaso più che mai circa l’avvenire di una simile macchina da corsa.

Esasperato dalle adulazioni di un ammiratore sempre più invadente e assediato dal fisco francese che vuole incorporare il valore della barca nei suoi redditi di modesto ufficiale di marina, Tabarly finisce per separarsi dal suo trimarano nell’estate del 1970. In cambio, il nuovo proprietario s’impegna a versargli 225.000 franchi, di cui un terzo in contanti. Colas è più ossessionato che mai. Si rivolge alla sua famiglia, elemosina dagli amici e convince un certo numero di industriali.

Il 26 dicembre del 1970, è a bordo del suo Pen Duick alla partenza di una corsa prestigiosa, la Sidney-Hobart.

Analizzato a distanza, il nuovo episodio dell’ avventura del “capitano senza scrupoli” non sorprende: una forte tempesta si abbatte sulla flotta e Colas passa oltre le terribili condizioni atmosferiche, ignora le quindici barche affondate e non si formalizza nemmeno di essere lui stesso dato per disperso. Ha altri problemi: il suo equipaggio è al limite dell’ammutinamento. Il neo-skipper riesce in qualche modo calmare i suoi cinque e a raggiungere l’arrivo.

Qualche mese più tardi, Colas è a Tahiti intento a lavorare come un matto, notte e giorno, per migliorare la sua macchina. Ha appena incontrato Teura, sua futura moglie e poi madre dei suoi tre figli.

Ma è già installato su una nuova rampa di lancio che lo deve condurre al più presto in Francia sulla linea di partenza della prossima Transat, prevista in Inghilterra il 17 giugno del 1972. Il tempo passa. Teura è del viaggio, ma prova la brutta sensazione di sentirsi un peso morto. Il suo compagno, lei lo comprenderà molto presto, è un uomo pressato. Uno sprinter sempre in posizione di ricerca della velocità, sempre preoccupato di limitare il tempo perduto.

A partire dall’ isola di Réunion, il viaggio di nozze si tramuta in spedizione solitaria. Colas raggiunge la Francia in un solo balzo di 10.000 miglia e realizza, secondo lui, “il vero exploit della mia vita”.

A qualche giorno dalla Transat, l’uomo- proiettile è ignorato dai media. La stampa non ha occhi che per Vendredi 13, il mostro di Jan-Jyves Terlain, i cui 39 metri di lunghezza gli valgono il titolo ufficiale di più lungo veliero mai allineato alla partenza di una corsa transatlantica.

Cambio di regime all’arrivo. Nella sorpresa generale, Pen Duick IV trionfa a Newport. Dopo 20 giorni, 13 ore e 15 minuti di corsa, il suo skipper Colas diviene il marinaio più rapido dell’Atlantico.

Sempre di più: appena digerita questa prima vittoria, Colas caldeggia nuovi progetti, ancora più folli dei precedenti: “IL MIO TURNO E’ VENUTO. L’ORA DELLA MIA PIU’ GRANDE BATTAGLIA HA SUONATO. E’ TEMPO PER ME DI GUADAGNARMI I GRADI DI AMMIRAGLIO”.

Il re degli sbruffoni parla naturalmente del Capo Horn, l’Everest della vela, la prova iniziatica indispensabile. La sola capace, pensa lui, di zittire i sarcasmi e i pettegolezzi che non mancano mai di accompagnare la più piccola delle sue dichiarazioni.

Il progetto, ancora una volta, è portato a termine. Colas vuole partecipare al futuro giro del mondo in equipaggio, la Withbread. Gli organizzatori sono irremovibili: i multiscafi non saranno ammessi.

E allora? Come già Tabarly, l’escluso decide di correre per conto proprio. Unico ed esclusivo avversario, il tempo. Si sente in grado di battere il record stabilito nel ‘66 da Sir Francis Chichester. Pen Duick viene ribattezzato per l’occasione Manureva. Un’incognita persiste: fino allora, un solo trimarano era arrivato a doppiare il Capo Horn, non senza pagare il tributo di tanta audacia. Appena giunta in Atlantico, la barca di Nigel Tetley fu totalmente disintegrata! Ci vuole ben altro per fermare Colas. Lui comunque non conoscerà simili disavventure. Durante i settantanove giorni che lo conducono a Sydney, contro i 100 di Chichester, registra appena una lieve avaria al gruppo elettrogeno e una altrettanto lieve intossicazione di monossido di carbonio dovuta alla stufa di bordo. Il viaggio di ritorno non sarà più movimentato: il Capo Horn si mostra quanto mai clemente. Ma che importa: alla fine di un viaggio di 179 giorni, Manureva migliora di cinquantasei giorni il celebre record di Chichester.

Il processo è ormai classico. Alain Colas non si prende nemmeno il tempo di godersi questa nuova avventura. Già lo stadio superiore del missile delle sue perpetue ambizioni è acceso.

Il vincitore della Transat sogna di ripetere il suo exploit nell’edizione del 1976 con un bastimento a vela che lui intende comandare solo, grazie ai progressi della tecnologia e dell’informatica.

Già dall’ inizio del 1975 il progettista di fiducia traccia sul tavolo da disegno i primi schizzi di una demenziale cattedrale di tela e ferro totalmente rivoluzionaria non tanto per la sua concezione, quanto per le sue dimensioni. Il futuro prototipo di Alain Colas misura 72 metri e dispone di una velatura di 1200 metri quadri su quattro alberi di 32 metri d’altezza: il budget iniziale di questa impresa è fissato in 5 milioni di franchi!

Più millantatore che mai, Colas corre dietro a investitori e sponsor. Strada facendo, convince Gilbert Trigano, il padrone di Club Mediterranée, a raggiungerlo sul suo sogno di grandezza. Le discussioni si moltiplicano, i negoziati si sovrappongono.

Il 19 maggio 1975 l’avventura precipita. Alain Colas è trasportato d’urgenza all’ ospedale. Qualche ora prima, al ritorno da un’uscita domenicale, il principe dei navigatori è stato vittima di un insulso, orribile incidente: per stoppare il suo trimarano lanciato in piena velocità all’interno del porto, Colas ha dovuto buttare l’ancora. In catastrofe: non ha visto che la catena stringeva la sua caviglia destra. Quando l’ancora ha fatto presa, la catena si è tesa di un solo colpo e il suo piede è stato quasi completamente amputato.

22 operazioni saranno necessarie per una ripresa solo parziale. Le diagnosi mediche sono molto pessimiste. Persino i più fedeli sostenitori di Colas dubitano che lui possa un giorno navigare in solitario, nonostante che lui rilasci interviste rassicuranti dal suo letto d’ospedale.

Molto diminuito fisicamente, egli ordina comunque ai responsabili del cantiere di iniziare i lavori di costruzione del quattro alberi. Gli osservatori s’interrogano, gli investitori dubitano.

Colas è preso in una spirale infernale, ma rifiuta di mollare la presa. Il tempo stringe, ancora una volta.

Munito del suo circuito video di sorveglianza, e della sua chiglia in uranio spento, Club Mediterranée è varato il 15 febbraio 1976, quattro mesi prima della partenza della nuova Transat.

Nonostante la sua gamba, nonostante la sua mancanza di preparazione e di denaro, nonostante le dimensioni smisurate della sua barca, lo skipper-turbo non dubita per un solo istante che vincerà anche questa nuova prova. Errore. L’attraversata trionfale diventa un incubo. Piazzato in testa per tutta la corsa, Alain Colas è superato sulla linea d’arrivo da Eric Tabarly. Il suo più feroce avversario del momento, il solo in ogni caso che abbia osato replicare alla “corsa agli armamenti” decretata dal suo cadetto, lo sopravanza di 7 ore e 20 minuti.

L’affronto è insopportabile. Ancora più insopportabile perché Club Mediterranèe, colpevole di aver beneficiato di un aiuto esterno durante uno scalo forzato a Terranova, alla fine è retrocesso alla quinta posizione.

Colas finge l’indifferenza, ma in realtà è a pezzi.

Dieci anni più tardi, nel libro di ricordi “Le Tourbillon de la Glorie (il vortice della gloria)”, sua moglie Teura misura senza compiacenza la profondità della delusione:

“...la storia d’amore tra Colas e il mare termina là, sulla banchina di Newport. Lui conserverà la passione, ma questa gli brucerà le dita e lo spirito. L’uomo saggio diventa incosciente e aggressivo. Il dolore del suo piede destro risorge ancora più intenso perché lui è sconfitto. ... A partire da quel giorno lui si allontana da me e da tutti e non tornerà più indietro. Il suo sguardo porterà sempre più spesso delle tracce di odio. Colas comincia a diffidare del mare. Il mare non lo seduce più, lo impressiona. Lui non si abbandona più in esso, ma ci si scontra.”



Teura non ha più parole per fermarlo. I sostenitori si allontanano. Avversari e detrattori aspettano un altro passo falso.

Colas non ha ancora reso le armi, è già oltre. “Ma dove sei passato, Manureva?”







Tabarly e Colas ritenevano che fosse possibile navigare a vela più veloci dei "soli" dieci nodi che le migliori imbarcazioni da regata dell’epoca potevano raggiungere. Quasi tutti i loro contemporanei consideravano ogni velocità superiore non solo impossibile ma anche mortalmente pericolosa. Che i due navigatori avessero visto giusto l’ha dimostrato Il 25 settembre 2007 Hydroptère, trimarano volante (concettualmente derivato da Pen Duick IV) munito di appendici sommerse progettate da Airbus: ha toccato i 52,86 nodi (97,90 km/h).






Il superamento della barriera dei cinquanta nodi equivale al superamento del muro del suono in aeronautica. Oggi è chiaro che il limite è in realtà ancora molto lontano. L’unico limite sono i soldi, lo sviluppo di materiali sufficientemente leggeri e resistenti e marinai abbastanza coraggiosi da mettersi al timone di questi vascelli ancora piuttosto pericolosi.






Ai tempi di Colas le barche per questi record erano assemblate nei garage degli appassionati che truccavano scafi di serie. Se oggi capitali consistenti fluiscono in questo particolare settore è perché davanti alle prue sono già visibili applicazioni commerciali concrete.






Con il canale di Panama ormai troppo stretto per le nuove classi di navi portacontainer da 9.000 e 11.000 unità (altrettanti TIR ci vorrebbero per trasportarli via terra), con la rotta di Suez ormai troppo infestata dai pirati e troppo vicina ai venti di guerra mediorientali e soprattutto con i prezzi del carburante alle stelle occorre rispolverare una via alternativa per passare da ovest verso est.






Non c’è che la rotta del grande Sud, quella che segna in maniera indelebile la memoria di ogni marinaio che ci si è avventurato. E’ quella tra i capi Buona Speranza, Leeuwin, e Horn. Sotto a queste estreme lingue di Africa, Oceania e America si estende un anello di acqua compreso tra i 40 e i 50 gradi di latitudine sud che sul mappamondo è per lo più nascosto dal supporto inferiore e che i navigatori chiamano “i quaranta ruggenti e i cinquanta urlanti.” Un continente liquido frustato da tempeste terribili che si susseguono alla media di una ogni due giorni, con onde che si rincorrono all’infinito senza incontrare terre emerse e assumono dimensioni enormi. Non ci sono pirati ma vento, neve e gelo ne fanno uno degli ambienti più inospitali della terra. Le intemperie spingono le imbarcazioni a vela verso est a velocità vertiginose. Più si scende a sud, più corta diventa la strada attraverso i meridiani, che laggiù sono degli spicchi sottilissimi. E’ un gioco molto pericoloso: scendendo a sud si va in contro agli iceberg, i ghiacci galleggianti che si staccano dall’Antartide e ai growlers, ancora più pericolosi in quanto sommersi. Dulcis in fundo, in caso di problemi non è possibile ricevere nessun tipo di aiuto, né via aria né via mare. Solo i mezzi propri su cui fare affidamento. Fare naufragio in queste acque significa aggiungere un’altra croce a quello che l’argentino Vito Dumas, che aveva doppiato l’Horn, definiva “lo spaventoso cimitero di marinai che giace sotto a queste acque in eterna ebollizione”.
Questa rotta così amata dai velisti estremi non è nuova. Già negli anni sessanta del 1800, i famosi clippers (da to clip, cioè tagliare i tempi di transito) a vela collegavano Londra a Londra via Sidney impiegando 100 giorni. L’epopea della rotta dei clippers fu allo stesso tempo l’apogeo e la fine della navigazione commerciale a vela, soppiantata poi dal motore a vapore e dall’apertura del canale di Suez.
Trovarsi oggi nel Sud e non alzare una vela almeno come propulsione ausiliaria sarebbe alquanto stupido e gli armatori più lungimiranti stanno già facendo la punta alla loro matita per calcolare quanto carburante possono risparmiare per ogni metro quadro di vela issata. S´inizia a riscrivere una storia affascinante.








nella veranda di Dio

30/04/10




































































Esausto, la tuta ancora impastata di polvere lunare. Eugene Cernan, ad oggi l'ultimo uomo sulla luna, ritorna verso la terra. Immagine da BooWoow






Quarantuno anni fa l’uomo metteva piede sulla luna. Io avevo un anno, mia madre mi racconta che quella notte di lunedì 21 luglio 1969 era particolarmente afosa e che nel cielo la luna appariva del tutto nitida.




Credo che fu soprattutto quella straordinaria impresa a rendere gli anni a cavallo fra i ’60 e i ’70 un periodo di grande ottimismo, dinamismo e fede nella tecnologia. Non un brutto periodo in cui nascere, direi. Ho letto molto sull’epopea lunare, l’argomento mi affascina. Il resoconto più preciso e obiettivo è il libro “Carrying the fire” (portando il fuoco), scritto solo nel 1983 da Michael Collins. È l’unico membro dell’equipaggio dell’Apollo 11 (Armstrong, Collins, Aldrin) che sia riuscito a non perdere la testa una volta ritornato sulla terra. Alcolismo, depressione e divorzi penosi sono invece le stimmate che hanno afflitto i suoi due compagni. Di Aldrin si dice che non riuscì mai a superare il trauma di non essere stato scelto come primo a scendere la scaletta del Lem e camminare sulla luna. Gli fu preferito Armstrong: ufficialmente perché era il comandante della missione, ufficiosamente perché era un civile, mentre Aldrin e Collins erano militari. Gli USA volevano così dare al mondo la sensazione che attraverso la conquista lunare non stessero perseguendo fini militari.




M’impressionano soprattutto le cifre: ogni dollaro investito nella missione ne fruttò 50 sotto forma di ricaduta tecnologica e sviluppo di nuovi prodotti per uso quotidiano (silicone e gore-tex sono due esempi). Ogni singolo prodotto scelto per la missione (rasoio Gillette, orologio Omega, fotocamera Hasselblad e altro) godono ancora oggi di una supremazia commerciale quasi imbarazzante. Il razzo Saturn V con 111 metri di altezza, 3100 tonnellate di peso al decollo e 155 milioni di cavalli vapore è il mezzo più potente mai costruito dall’uomo, lo resterà probabilmente per sempre. Alcune delle tecnologie che ci vengono proposte oggi come novità assolute erano in realtà già disponibili, almeno per la NASA con i suoi monumentali assegni, nel 1969. Soprattutto la telematica: basti pensare che le missioni partivano dalla Florida, il controllo missione era a Houston in Texas, l’ammaraggio avveniva nel Pacifico al largo delle isole Hawaii e la regia televisiva si trovava in Australia per motivi legati a una migliore ricezione del segnale proveniente dallo spazio.




Un altro aspetto ha richiamato la mia attenzione. Quasi tutti gli astronauti che hanno partecipato alle missioni Apollo hanno riferito che, nonostante fossero circondati da paesaggi astrali meravigliosi e sconosciuti, il loro sguardo era regolarmente attirato dal nostro piccolo pianeta azzurro, la terra. Sono loro gli unici uomini che hanno potuto ammirarlo come un astro esterno. Buzz Aldrin parlò di "uno straordinario gioiello dentro uno scrigno nero, quattro volte più voluminoso che la luna vista dalla terra".






Erano tutti uomini di solidissima formazione scientifica, completamente cartesiani. Militari e civili, dotati di un coraggio fisico e spirituale fuori della norma. Uomini con un sangue freddo esemplare. A questo proposito Collins racconta che, poco prima della missione, Armstrong rischiò di morire nell’incidente di un simulatore. Appena ne fu informato, Collins si precipitò a vedere Armstrong. Lo trovò perfettamente tranquillo che faceva colazione con un toast al bacon e succo di arancia studiando un manuale di fisica. Quando gli chiese: “È successo qualcosa nel simulatore?”, lui non alzò lo sguardo dal libro e si limitò a rispondere: “Sì’”.




Trovo quindi piuttosto sorprendente che molti dei 12 astronauti (9 ancora viventi) che sono stati sulla luna nelle missioni Apollo abbiano riferito di aver concepito durante i voli pensieri che si possono senz’altro definire mistici.






















Eugene Cernan è stato l’ultimo uomo a camminare sulla luna nella missione Apollo 17, conclusasi il 19 dicembre 1972. Vi trascorse oltre 22 ore e percorse 30 chilometri a bordo del veicolo lunare Rover. Fu invidiato da tutti i padri del mondo perché lasciò il nome della figlia scritto sulla superficie lunare.  Così egli descrive il momento dell’ultimo passo umano sulla luna, non meno straordinario del primo passo:






“Risalendo i gradini della scala che portava al Lem (il modulo lunare che lo avrebbe riportato sulla terra, ndr) ho pensato che non ci sarebbe stato nella mia vita nessun luogo di cui avrei potuto dire: non ci tornerò più. Avrei voluto fermare il tempo per riflettere. Il passato, il presente il futuro, l’infinito: ero nel mezzo di tutto questo. Nella veranda di Dio. E ancora oggi non so qual'è la portata di quello che abbiamo compiuto.”