Ma dove sei passato, Manureva?

21/11/10








Alain Colas è un navigatore francese nato il 16 settembre 1943 a Clamecy e scomparso il 16 novembre 1978 al largo delle Azzorre. La sua innovazione è stata così grande che il viaggiare da un continente all’altro sospinti dal vento, senza consumare energia e senza produrre emissioni si divide in un “prima di Colas” e in un “dopo Colas”.






Deriso e vilipeso, non di rado accusato di megalomania dai suoi contemporanei, ha pagato un prezzo altissimo al fuoco sacro della sua visione e alla diffidenza del suo prossimo. La sua fine è stata spettacolare e grandiosa proprio come la sua vita. Una fine, amplificata dai media, che è divenuta la cattiva coscienza di tutti i suoi critici.













Il liceo della comunicazione a Nevers è stato intitolato a Alain Colas. A Clamecy, una statua di bronzo del navigatore è stata inaugurata nel 2006. Molte città in Francia hanno dato il nome di Alain Colas a una strada o a una piazza.


Anche le storie tristi possono concludersi in canzone. Alla fine di un incubo marittimo di sinistra memoria, Alain Chamfort s’interrogava: “Ma dove sei passato, Manureva?” La melodia non è brutta e le parole (di Gainsburg) non hanno niente di stupido.

Trentadue anni più tardi, il ritornello risuona ancora alle nostre orecchie e la domanda resta sempre senza risposta. Come un’avventura senza indomani ruminata da due amanti stanchi, come il brutto sogno di un bambino durante la notte, Manureva è un dispiacere che s’inghiotte in silenzio.

Per qualche giorno la speranza si è aggrappata a un relitto introvabile. Il tempo per offrire ai falsari la soddisfazione dei loro bassi istinti e ai necrofagi il piacere di superare l’ultimo appello.

Che cosa non si è letto e sentito a proposito della sparizione di Alain Colas e del suo trimarano Manureva (uccello del viaggio, in polinesiano)! Dal suicidio calcolato alla fuga programmata, le supposizioni più azzardate sono state fatte. Senza ritegno e spesso senza pudore, i radioestesisti hanno agitato i loro pendoli e gli indovini hanno rigirato le loro carte. Si è spulciato nei pacchetti di lettere anonime e si sono ritrovati in mare quantità di messaggi nella bottiglia.

Il personaggio prestava certo il fianco alle elucubrazioni di ogni specie, ma col passare dei giorni il cattivo gusto prende molto velocemente il sopravvento sulla pietà. Per meglio approfittare di un mito abbattuto troppo in fretta e sfruttare l’immagine di un eroe già privato d’identità, i mercanti di sogni si sono affrettati a intessere a colpi di superlativi i loro lenzuoli di menzogne e di calunnie.

La verità, invece, era limpida. Il 17 novembre 1978 alle 17:00, Alain Colas comunica un’ultima volta la sua posizione e lancia un ultimo appello di soccorso “Sono al centro di un ciclone, non c’è più cielo, non c’è più cielo!”

Per quanto disperato, questo grido non ha suscitato un’immediata reazione. A quell’epoca, quando gli apparecchi di telecomunicazione erano ancora utilizzati a fini tattici per ingannare l’avversario, anche i marinai più avveduti hanno preso l’abitudine di diffidare di possibili bluff.

Tuttavia in questo caso, dopo un momento di dubbio, anche gli scettici si convincono, poiché quel giorno le condizioni meteo lasciavano poca speranza. La potenza delle raffiche di vento registrate nel settore del supposto naufragio faceva effettivamente credere il peggio. Di fatto, però, le ricerche non cominceranno seriamente che dopo l’arrivo dei primi della gara a Guadalupe.

La posizione del più mediatico dei concorrenti della Route du Rhum, partita dodici giorni prima da Saint Malo era evidentemente difficile da valutare. L’ultimo punto, 36°5’ di longitudine ovest e 35°5’ di latitudine sud si rivela presto aleatorio. Nel primo pomeriggio del 17 novembre, l’equipaggio di un aereo da ricognizione si era sorpreso di costatare che Colas e Manureva filavano a tutta velocità, laddove Olivier de Kersauson, il suo più vicino inseguitore, avanzava prudentemente a secco di vele.

Fatto curioso: nello stesso momento in cui i soccorritori si rassegnano, la Francia nel suo insieme si degna di sperare. In pochi giorni, l’impressionante e patetica caccia al navigatore prende l’ampiezza di una catastrofe nazionale. In un ultimo sussulto di speranza, François Mitterrand reclama dalla tribuna dell’Assemblea Nazionale che si prolunghino ancora un poco le ricerche.

In occasione di una delle sue ultime traversate, Alain Colas non aveva delle immagini troppo belle per rendere conto degli elementi che presto avrebbero causato la sua perdita. ”I colpi del mare si abbattono sugli scafi laterali, le onde e i frangenti volano fino all’altezza di metà albero. La coperta è quasi sempre sott’acqua e io devo lottare, raffica dopo raffica, per mantenere la rotta”.

Lo sprinter degli oceani si era fissato un programma ambizioso, e non lo ha mai ridimensionato, senza dubbio spinto dal suo incorreggibile gusto per l’eccesso.

Alain Colas era un navigatore pressato. Troppo pressato, senza dubbio. Una specie di extraterrestre sbarcato in un territorio sconosciuto. Per lui le cose del mare non potevano che declinarsi in termini di magniloquenza e di superlativi. Un amante dei grandi spazi che si è applicato durante i dieci anni della sua esperienza salata a bruciare le tappe, come per meglio scusare la sua ignoranza e la sua incompetenza originali.

“Il varatore di cattedrali”, i cui progetti megalomani erano sempre aspramente criticati, non è nato marinaio. Tutt’altro. E’ cresciuto nella piccola città di Clamecy, dove i legami di parentela con il Capo Horn sono più o meno gli stessi che uniscono una lumaca di Borgogna a un ippopotamo del Mozambico. Alain Colas ha conosciuto un’infanzia senza problemi e ha seguito studi senza macchia.

Ha poi raggiunto il paese dei navigatori di lungo corso al termine di un itinerario il cui carattere tortuoso e inatteso non è evidentemente senza rapporto con la personalità di colui che si rivelerà il più ambizioso e il più arrogante di tutti.

L’aneddoto ha fatto il giro di tutti i porti del pianeta, accompagnato da sorrisi e toccate di gomito. Nel 1965, il laureato in inglese legge un piccolo annuncio su “Le Monde”: “University of Sidney, department of French, lecturer wanted”. L’occasione è troppo ghiotta e il malinteso troppo evidente. Alain Colas manda il suo curriculum senza immaginare nemmeno per un secondo che il lecturer in questione significa maestro di conferenze e non già lettore come la sua ingenuità (o la sua vanità?) gli avevano suggerito per errore. Il conto alla rovescia è iniziato.

L’11 gennaio 1966 lo studentello lascia la Francia. Non ha certo i soldi per un biglietto aereo, così si procura un passaggio a bordo di un cargo misto. In Australia lo attende una brutta notizia, gli spiegano qual è effettivamente il contenuto della mansione. Colas non ha i soldi per ritornare in patria, ma il personaggio non è di quelli che si arrendono tanto facilmente. Sa convincere, e soprattutto è molto fortunato: all’Università non ricevono nessun’altra candidatura. Qualche settimana più tardi il posto è suo.

A Sidney primo contatto con la vela, sport nazionale in Australia. Ogni famiglia ha una barca a vela, mentre non tutte possiedono un’automobile. Un vicino lo porta a navigare sulla sua piccola barca a vela, poi gliela lascia usare tutti i week end quando vede che lo straniero impara in fretta. Colas è entusiasta. Scriverà: “Fu il colpo di fulmine. La vela è uno sport appassionante, aureolato dal mistero delle sue parole esoteriche e di una meravigliosa possibilità di giocare con lo spazio e con il tempo.”. Il seguito, ancora una volta, contiene tutti gli ingredienti della perfetta success- story e risponde a una logica quasi matematica. Venti mesi dopo il suo primo bordo, Alain Colas è un accettabile membro di equipaggio.

Nel 1967 è anonimo alla partenza della Sydney-Hobart, una delle regate più dure del mondo, e secondo all’arrivo. Il vincitore della gara? Eric Tabarly, la star velica del momento, e la sua barca avveniristica Pen Duick II. Inizio di un’amicizia tra il militare e il piccolo prof. e di una crociera in Nuova Caledonia che suggella definitivamente il destino del neofita.

Testimone privilegiato è Olivier de Kersauson, anche lui tra i migliori navigatori francesi. Questi ha avuto poi molte volte l’occasione di dimostrare, non senza ironia, gli anni luce che separano, in quel momento preciso, l’apprendista campione dai suoi compagni di rotta: “In mare lui diventa un personaggio delle sue conferenze. Noi passiamo il tempo a sfotterlo. Non è mai stato in Bretagna, non ha niente a che vedere con il nostro clan. Ne abbiamo fatto un cuoco, ma com’è difficile abituarsi a lui. Ci dà ai nervi. Scrive il giornale di bordo, figuriamoci! Colas non fa nulla per appartenere al clan dei navigatori bretoni, non ne impara lo slang e non porta nemmeno la barba d’ordinanza, ma improbabili basettoni da ufficiale prussiano. E’ però sufficiente il tempo di una tempesta come generalmente se ne incontra una sola nella vita per la pura e semplice ragione che essa non si degna di accordare nemmeno ai più temerari la minima possibilità. Il marinaio d’acqua dolce viene riconosciuto degno di lottare insieme ai migliori. Kersauson sottolinea: “Dopo aver visto il peggio del mare e averlo domato, tornammo invincibili. E anche Colas.” Seguito del film, proiettato a velocità accelerata: Colas rientra a Parigi nella primavera del 1968, ignora completamente le barricate del maggio francese e ritrova Eric Tabarly, occupato a preparare la sua nuova barca.

Pen Duick IV è un trimarano rivoluzionario con hydrofoil (appendici alari sommerse) che immediatamente eccita la fantasia di Colas. Lui non dispone di alcuna notorietà e non possiede nessuna fortuna. Nonostante questo, non gli serviranno più di ventiquattro mesi per diventare solo e unico proprietario di questo multiscafo che non gli era stato promesso.

Sotto il comando di Tabarly, Pen Duick IV conosce numerosi fallimenti tra cui un abbandono nella Transat del 1968 e un disalberamento. Snobbato dagli organizzatori della transpacifica Los Angeles- Honnolulu, ancora contrari ai multiscafi, lui corre comunque come franco tiratore e arriva in porto diciannove ore davanti al vincitore ufficiale. Anche Colas è della festa, persuaso più che mai circa l’avvenire di una simile macchina da corsa.

Esasperato dalle adulazioni di un ammiratore sempre più invadente e assediato dal fisco francese che vuole incorporare il valore della barca nei suoi redditi di modesto ufficiale di marina, Tabarly finisce per separarsi dal suo trimarano nell’estate del 1970. In cambio, il nuovo proprietario s’impegna a versargli 225.000 franchi, di cui un terzo in contanti. Colas è più ossessionato che mai. Si rivolge alla sua famiglia, elemosina dagli amici e convince un certo numero di industriali.

Il 26 dicembre del 1970, è a bordo del suo Pen Duick alla partenza di una corsa prestigiosa, la Sidney-Hobart.

Analizzato a distanza, il nuovo episodio dell’ avventura del “capitano senza scrupoli” non sorprende: una forte tempesta si abbatte sulla flotta e Colas passa oltre le terribili condizioni atmosferiche, ignora le quindici barche affondate e non si formalizza nemmeno di essere lui stesso dato per disperso. Ha altri problemi: il suo equipaggio è al limite dell’ammutinamento. Il neo-skipper riesce in qualche modo calmare i suoi cinque e a raggiungere l’arrivo.

Qualche mese più tardi, Colas è a Tahiti intento a lavorare come un matto, notte e giorno, per migliorare la sua macchina. Ha appena incontrato Teura, sua futura moglie e poi madre dei suoi tre figli.

Ma è già installato su una nuova rampa di lancio che lo deve condurre al più presto in Francia sulla linea di partenza della prossima Transat, prevista in Inghilterra il 17 giugno del 1972. Il tempo passa. Teura è del viaggio, ma prova la brutta sensazione di sentirsi un peso morto. Il suo compagno, lei lo comprenderà molto presto, è un uomo pressato. Uno sprinter sempre in posizione di ricerca della velocità, sempre preoccupato di limitare il tempo perduto.

A partire dall’ isola di Réunion, il viaggio di nozze si tramuta in spedizione solitaria. Colas raggiunge la Francia in un solo balzo di 10.000 miglia e realizza, secondo lui, “il vero exploit della mia vita”.

A qualche giorno dalla Transat, l’uomo- proiettile è ignorato dai media. La stampa non ha occhi che per Vendredi 13, il mostro di Jan-Jyves Terlain, i cui 39 metri di lunghezza gli valgono il titolo ufficiale di più lungo veliero mai allineato alla partenza di una corsa transatlantica.

Cambio di regime all’arrivo. Nella sorpresa generale, Pen Duick IV trionfa a Newport. Dopo 20 giorni, 13 ore e 15 minuti di corsa, il suo skipper Colas diviene il marinaio più rapido dell’Atlantico.

Sempre di più: appena digerita questa prima vittoria, Colas caldeggia nuovi progetti, ancora più folli dei precedenti: “IL MIO TURNO E’ VENUTO. L’ORA DELLA MIA PIU’ GRANDE BATTAGLIA HA SUONATO. E’ TEMPO PER ME DI GUADAGNARMI I GRADI DI AMMIRAGLIO”.

Il re degli sbruffoni parla naturalmente del Capo Horn, l’Everest della vela, la prova iniziatica indispensabile. La sola capace, pensa lui, di zittire i sarcasmi e i pettegolezzi che non mancano mai di accompagnare la più piccola delle sue dichiarazioni.

Il progetto, ancora una volta, è portato a termine. Colas vuole partecipare al futuro giro del mondo in equipaggio, la Withbread. Gli organizzatori sono irremovibili: i multiscafi non saranno ammessi.

E allora? Come già Tabarly, l’escluso decide di correre per conto proprio. Unico ed esclusivo avversario, il tempo. Si sente in grado di battere il record stabilito nel ‘66 da Sir Francis Chichester. Pen Duick viene ribattezzato per l’occasione Manureva. Un’incognita persiste: fino allora, un solo trimarano era arrivato a doppiare il Capo Horn, non senza pagare il tributo di tanta audacia. Appena giunta in Atlantico, la barca di Nigel Tetley fu totalmente disintegrata! Ci vuole ben altro per fermare Colas. Lui comunque non conoscerà simili disavventure. Durante i settantanove giorni che lo conducono a Sydney, contro i 100 di Chichester, registra appena una lieve avaria al gruppo elettrogeno e una altrettanto lieve intossicazione di monossido di carbonio dovuta alla stufa di bordo. Il viaggio di ritorno non sarà più movimentato: il Capo Horn si mostra quanto mai clemente. Ma che importa: alla fine di un viaggio di 179 giorni, Manureva migliora di cinquantasei giorni il celebre record di Chichester.

Il processo è ormai classico. Alain Colas non si prende nemmeno il tempo di godersi questa nuova avventura. Già lo stadio superiore del missile delle sue perpetue ambizioni è acceso.

Il vincitore della Transat sogna di ripetere il suo exploit nell’edizione del 1976 con un bastimento a vela che lui intende comandare solo, grazie ai progressi della tecnologia e dell’informatica.

Già dall’ inizio del 1975 il progettista di fiducia traccia sul tavolo da disegno i primi schizzi di una demenziale cattedrale di tela e ferro totalmente rivoluzionaria non tanto per la sua concezione, quanto per le sue dimensioni. Il futuro prototipo di Alain Colas misura 72 metri e dispone di una velatura di 1200 metri quadri su quattro alberi di 32 metri d’altezza: il budget iniziale di questa impresa è fissato in 5 milioni di franchi!

Più millantatore che mai, Colas corre dietro a investitori e sponsor. Strada facendo, convince Gilbert Trigano, il padrone di Club Mediterranée, a raggiungerlo sul suo sogno di grandezza. Le discussioni si moltiplicano, i negoziati si sovrappongono.

Il 19 maggio 1975 l’avventura precipita. Alain Colas è trasportato d’urgenza all’ ospedale. Qualche ora prima, al ritorno da un’uscita domenicale, il principe dei navigatori è stato vittima di un insulso, orribile incidente: per stoppare il suo trimarano lanciato in piena velocità all’interno del porto, Colas ha dovuto buttare l’ancora. In catastrofe: non ha visto che la catena stringeva la sua caviglia destra. Quando l’ancora ha fatto presa, la catena si è tesa di un solo colpo e il suo piede è stato quasi completamente amputato.

22 operazioni saranno necessarie per una ripresa solo parziale. Le diagnosi mediche sono molto pessimiste. Persino i più fedeli sostenitori di Colas dubitano che lui possa un giorno navigare in solitario, nonostante che lui rilasci interviste rassicuranti dal suo letto d’ospedale.

Molto diminuito fisicamente, egli ordina comunque ai responsabili del cantiere di iniziare i lavori di costruzione del quattro alberi. Gli osservatori s’interrogano, gli investitori dubitano.

Colas è preso in una spirale infernale, ma rifiuta di mollare la presa. Il tempo stringe, ancora una volta.

Munito del suo circuito video di sorveglianza, e della sua chiglia in uranio spento, Club Mediterranée è varato il 15 febbraio 1976, quattro mesi prima della partenza della nuova Transat.

Nonostante la sua gamba, nonostante la sua mancanza di preparazione e di denaro, nonostante le dimensioni smisurate della sua barca, lo skipper-turbo non dubita per un solo istante che vincerà anche questa nuova prova. Errore. L’attraversata trionfale diventa un incubo. Piazzato in testa per tutta la corsa, Alain Colas è superato sulla linea d’arrivo da Eric Tabarly. Il suo più feroce avversario del momento, il solo in ogni caso che abbia osato replicare alla “corsa agli armamenti” decretata dal suo cadetto, lo sopravanza di 7 ore e 20 minuti.

L’affronto è insopportabile. Ancora più insopportabile perché Club Mediterranèe, colpevole di aver beneficiato di un aiuto esterno durante uno scalo forzato a Terranova, alla fine è retrocesso alla quinta posizione.

Colas finge l’indifferenza, ma in realtà è a pezzi.

Dieci anni più tardi, nel libro di ricordi “Le Tourbillon de la Glorie (il vortice della gloria)”, sua moglie Teura misura senza compiacenza la profondità della delusione:

“...la storia d’amore tra Colas e il mare termina là, sulla banchina di Newport. Lui conserverà la passione, ma questa gli brucerà le dita e lo spirito. L’uomo saggio diventa incosciente e aggressivo. Il dolore del suo piede destro risorge ancora più intenso perché lui è sconfitto. ... A partire da quel giorno lui si allontana da me e da tutti e non tornerà più indietro. Il suo sguardo porterà sempre più spesso delle tracce di odio. Colas comincia a diffidare del mare. Il mare non lo seduce più, lo impressiona. Lui non si abbandona più in esso, ma ci si scontra.”



Teura non ha più parole per fermarlo. I sostenitori si allontanano. Avversari e detrattori aspettano un altro passo falso.

Colas non ha ancora reso le armi, è già oltre. “Ma dove sei passato, Manureva?”







Tabarly e Colas ritenevano che fosse possibile navigare a vela più veloci dei "soli" dieci nodi che le migliori imbarcazioni da regata dell’epoca potevano raggiungere. Quasi tutti i loro contemporanei consideravano ogni velocità superiore non solo impossibile ma anche mortalmente pericolosa. Che i due navigatori avessero visto giusto l’ha dimostrato Il 25 settembre 2007 Hydroptère, trimarano volante (concettualmente derivato da Pen Duick IV) munito di appendici sommerse progettate da Airbus: ha toccato i 52,86 nodi (97,90 km/h).






Il superamento della barriera dei cinquanta nodi equivale al superamento del muro del suono in aeronautica. Oggi è chiaro che il limite è in realtà ancora molto lontano. L’unico limite sono i soldi, lo sviluppo di materiali sufficientemente leggeri e resistenti e marinai abbastanza coraggiosi da mettersi al timone di questi vascelli ancora piuttosto pericolosi.






Ai tempi di Colas le barche per questi record erano assemblate nei garage degli appassionati che truccavano scafi di serie. Se oggi capitali consistenti fluiscono in questo particolare settore è perché davanti alle prue sono già visibili applicazioni commerciali concrete.






Con il canale di Panama ormai troppo stretto per le nuove classi di navi portacontainer da 9.000 e 11.000 unità (altrettanti TIR ci vorrebbero per trasportarli via terra), con la rotta di Suez ormai troppo infestata dai pirati e troppo vicina ai venti di guerra mediorientali e soprattutto con i prezzi del carburante alle stelle occorre rispolverare una via alternativa per passare da ovest verso est.






Non c’è che la rotta del grande Sud, quella che segna in maniera indelebile la memoria di ogni marinaio che ci si è avventurato. E’ quella tra i capi Buona Speranza, Leeuwin, e Horn. Sotto a queste estreme lingue di Africa, Oceania e America si estende un anello di acqua compreso tra i 40 e i 50 gradi di latitudine sud che sul mappamondo è per lo più nascosto dal supporto inferiore e che i navigatori chiamano “i quaranta ruggenti e i cinquanta urlanti.” Un continente liquido frustato da tempeste terribili che si susseguono alla media di una ogni due giorni, con onde che si rincorrono all’infinito senza incontrare terre emerse e assumono dimensioni enormi. Non ci sono pirati ma vento, neve e gelo ne fanno uno degli ambienti più inospitali della terra. Le intemperie spingono le imbarcazioni a vela verso est a velocità vertiginose. Più si scende a sud, più corta diventa la strada attraverso i meridiani, che laggiù sono degli spicchi sottilissimi. E’ un gioco molto pericoloso: scendendo a sud si va in contro agli iceberg, i ghiacci galleggianti che si staccano dall’Antartide e ai growlers, ancora più pericolosi in quanto sommersi. Dulcis in fundo, in caso di problemi non è possibile ricevere nessun tipo di aiuto, né via aria né via mare. Solo i mezzi propri su cui fare affidamento. Fare naufragio in queste acque significa aggiungere un’altra croce a quello che l’argentino Vito Dumas, che aveva doppiato l’Horn, definiva “lo spaventoso cimitero di marinai che giace sotto a queste acque in eterna ebollizione”.
Questa rotta così amata dai velisti estremi non è nuova. Già negli anni sessanta del 1800, i famosi clippers (da to clip, cioè tagliare i tempi di transito) a vela collegavano Londra a Londra via Sidney impiegando 100 giorni. L’epopea della rotta dei clippers fu allo stesso tempo l’apogeo e la fine della navigazione commerciale a vela, soppiantata poi dal motore a vapore e dall’apertura del canale di Suez.
Trovarsi oggi nel Sud e non alzare una vela almeno come propulsione ausiliaria sarebbe alquanto stupido e gli armatori più lungimiranti stanno già facendo la punta alla loro matita per calcolare quanto carburante possono risparmiare per ogni metro quadro di vela issata. S´inizia a riscrivere una storia affascinante.