Tripoli '69

31/03/10

Da poco Mina ha compiuto settant’anni. Il risalto mediatico che ha avuto il suo compleanno è del tutto meritato, Mina è un vero mito. La sua voce, le sue canzoni e il suo personaggio sono amati da un pubblico vasto ed eterogeneo.



La un’interprete bravissima, ma un po' senz’anima. È perfetta in tutte le situazioni, ma non mi trasmette emozioni. Questo si deve anche al fatto che si muove sempre parecchio lontana dai limiti del suo eccezionale strumento vocale. Io invece amo sentire quando la voce o lo strumento musicale sono portati al limite, quando “rompono”: è lì che scatta quel qualcosa che li rende indimenticabili.



La sua scelta di ritirarsi dalla vita pubblica è più che comprensibile, e sicuramente ha portato a una produzione discografica di tutto rispetto. Preferisco però l’artista che si concede alla platea fino all’ultimo. Mi vengono in mente Miriam Makeba e Celia Cruz, morte praticamente sul palco.



Le interpreti femminili si muovono sul filo del rasoio sottilissimo tra aspetto fisico, look, gestualità e voce. Un filo che non perdona il minimo errore. Credo che gli interpreti maschi abbiano vita più facile da questo punto di vista.



Nella mia personale hit parade di cantanti italiane non metto Mina al primo posto. Davanti a lei ci sono Ornella Vanoni (“Per l’eternità”) e Patty Pravo (“Tripoli ’69”).



E al numero uno c’è la mora di Forlì, Alice. Ricordo che stavo guardando Sanremo 1981, avevo tredici anni e me ne stavo sul divano accanto ai miei genitori, piuttosto assopiti. Rimasi a bocca aperta quando lei entrò sul palcoscenico. Due gambe che non finivano più, un fisico da paura, presenza scenica incredibile, grinta da vendere. Quando attaccò “Per Elisa, vuoi vedere che perderai anche me” sentii che in quella donna c’era qualcosa che non andava. Voglio dire, era diversa da tutte le altre, aveva un magnetismo fuori dal comune. Aveva un modo di fissare la telecamera… mi trapassava da parte a parte. Guardai per un attimo i miei genitori, poi aspettai incantato la fine della canzone. Ancora oggi non ho dubbi, anche per gli standard odierni Alice è stratosferica, è stellare.



È un vero peccato che oggi Sanremo sia caduto così in basso. Mi riferisco non solo alla sciatteria, ma anche le dubbie qualità vocali di molti concorrenti. Non so se sia colpa degli aut-aut delle case discografiche o della troppa importanza che viene data alle parentele. Non sarebbe meglio per tutti spendere i (nostri) soldi per fare un festival con concorrenti che semplicemente siano capaci di cantare? Non si risparmierebbero così tante furibonde critiche?



Col satellite vado a vedermi i festival sudamericani: Nicaragua, Colombia, ecc. A parte certe fatali giacche doppiopetto marroni indossate dai presentatori, quei festival sono molto, ma molto più belli di Sanremo. E credo che costino una frazione, d’altra parte qualunque festival è più economico di Sanremo. I cantanti sanno cantare, addirittura mentre si esibiscono possono permettersi di sorridere, di muoversi con scioltezza. Guardarli diventa un vero piacere.



A Sanremo, molti concorrenti sembravano agonizzanti: inchiodati sul palcoscenico, con gli occhi sbarrati e le vene al collo gonfie emettevano suoni non proprio celestiali aspettando solo che l’orchestra finisse di suonare.



… meravigliosa Alice!

l'antirughe

27/03/10

A quarant’anni inizio per la prima volta a intravedere vagamente cosa significa sentirsi in pace con se stessi. Non dico che ci sono arrivato, ma ho visto che è possibile arrivarci.



A vent’anni pensavo molto alla relazione con gli altri esseri umani e ai sentimenti. Mi confortava pensare di essere circondato da altre persone che fossero anche solo ben disposte verso di me. A quarant’anni, la mia attenzione è molto di più sul pensiero che forse non ho davanti a me il tempo per completare tutti i miei progetti, per realizzare tutti i miei sogni. Dunque devo sceglierne alcuni e mettermi al lavoro. Però subito, adesso, in questo momento. Non “domattina” o “uno di questi giorni”.

Sostengono che quando inizi a dire “ma io mi sento giovane” lì inizi a invecchiare. Anch’io dico “mi sento giovane”,  però questa energia mi arriva dal rendermi conto che non è più il momento di esitare. No, non è il romanticismo, non sto ringiovanendo davvero: è la fifa che il tempo non mi basti.



Il passaggio dei quaranta mi ha fatto sentire il conforto del senso comune. Mi spiego: quando ho smesso di rubare la crema antirughe di mia moglie e ho comprato il mio primo barattolino personale (a proposito: come si stabilisce se hai la pelle secca, normale o grassa? Ed è vero che una scelta sbagliata può avere conseguenze disastrose per la pelle?) ho pensato “ecco, questo gesto l’hanno fatto in tanti prima di me e tanti lo faranno. Ci passano tutti. È un gesto che è agito collettivamente e quindi è rassicurante”. Più o meno come i passaggi dell’adolescenza: i brufoli, il cambio di voce, la prima sigaretta ecc. Tutti ci sono passati. Poi magari sono diventati punk, secchioni, timidi, bulli, tutti diversi tra loro. Ma davanti ai brufoli sono stati tutti uguali.



Credo che l’adolescenza e i quarant’anni siano periodi simili sotto alcuni aspetti: l’energia è alle stelle, gli ormoni proclamano la loro indipendenza, la fragilità è notevole. Soprattutto è alta la propensione a commettere belle, inutili, costose, pericolose cazzate: innamorarsi, fare amicizie trascinanti, fuggire via, tatuarsi. Unirsi ai ribelli e magari poi scoprire che ribelli non ce ne sono e tu sei l'unico...

"cosa da segretarie"

24/03/10

Lo ammetto, so veramente poco di rete e di computer. E non me ne vanto. Un fatto di mentalità, credo: preferisco usare gli oggetti che appartengono all’universo della meccanica e che si possono aprire, smontare e poi rimontare. E soprattutto che si possono vedere mentre funzionano. È anche un fatto generazionale: alla fine degli anni ottanta c’era a Bologna un mio amico che si era appassionato di computer e che passava le notti a navigare in internet invece che in osteria come me e gli altri amici. Internet era una cosa ancora molto rara a quei tempi. Quando mi raccontava che aveva visto questo, fatto quello e comprato quest’altro su internet io pensavo che si stesse bevendo il cervello come quelli che abusavano dei videogiochi. Insistevo perché tornasse con noi in osteria, ero convinto che un vizio praticato da soli fosse molto più pericoloso di uno praticato in compagnia. Un giorno mi venne a trovare e mi raccontò entusiasta di una grande novità, un nuovo motore di ricerca che funzionava a meraviglia. Ingenuamente, gli chiesi se era un motore diesel o benzina. Restammo amici, ma da lì in avanti lui evitò sempre questi argomenti con me. Prima di sapere cosa fosse in realtà un motore di ricerca (e di restarne un po' deluso), mi creai l'immagine fantasiosa del motore posato accanto al computer col tubo di scarico che passa attraverso la finestra.

All’inizio degli anni novanta lavoravo in un’azienda dove non c’era ancora la rete interna, per cui le prime mail che arrivavano all’unico indirizzo attivo venivano stampate e recapitate al destinatario con la posta interna. Ci volevano un paio di giorni. Giudicai quindi la posta elettronica un’invenzione senza futuro. E non ero il solo: ricordo molto bene che molti manager non volevano nemmeno  il computer sulle loro scrivanie, come prima non volevano la macchina da scrivere. Le lettere si dettavano alle segretarie che poi dovevano sottoporsi al rituale un po’ umiliante della correzione con la penna rossa. Io usavo la matita, mi sembrava più carino. I manager non volevano il computer, dicevano: “cosa da segretarie”.