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Troppo caldo

04/12/16




L’aereo da Mexico City è in ritardo di otto ore, oppure diciotto. Non so. Mi sono imbarcato a Las Vegas che era già sera e non ho mai visto sorgere il sole in tutto questo tempo. O forse sì, non ricordo.


La notte habanera è buia come una bocca di lupo. I fari del taxi illuminano brevemente un angolo, un portone, un bidone di spazzatura sventrato, un cane che dorme. I padroni della casa particular mi aspettano sulla porta.


Mi sveglio la mattina successiva in un quartiere di Habana che conoscevo poco: Centro Habana, per la precisione sono all’incrocio tra San Lazaro san Nicolas. Venendo dal Malecón (il lungomare), il riferimento è l’Hotel Deauville, con l’inconfondibile skyline blu.Stavolta il sole è sorto eccome, e picchia. Habana però sa essere anche tiepida, in certi angoli ombreggiati e ventosi.


Inizio a esaminare queste strade camminando verso l’ospedale Hermanos Amejeiras. Gli edifici sono belli, maestosi e cadenti. Mancano le parole per descrivere le ringhiere di ferro battuto dei balconi, e le loro travi ormai scoperte dall’azione del tempo e del mare. Alcuni dettagli affrescati, i portoni di legno intarsiato. Le serrande sulla strada prodotte in Spagna quasi un secolo fa. Struggenti i palazzi che hanno dovuto essere puntellati dopo il collasso della parte interna. Quasi intatta la facciata, mentre il corpo è sparito e al suo posto crescono alberi.  Quando il vento li fa ondeggiare, sembra da una certa angolazione che dietro le finestre sia in corso una qualche baruffa.


Gli edifici che resistono sembrano aver incorporato la bellezza sognante di quelli che non ce l’hanno fatta. Una passeggiata su queste strade dovrebbe essere obbligatoria per chiunque aspiri a diventare un architetto.In questi pochi chilometri quadrati ci sono alcuni edifici che rappresentano il prototipo dello stile cui appartengono. L’Edificio Bacardi è il miglior esempio mondiale di Art  Nouveau. L’imponente edificio FOCSA, ma siamo già nel Vedado, terminato nel 1956  era in quel momento il secondo edificio in cemento armato più grande del mondo dopo il Martinelli Building a San Paolo, Brasile.

Sempre nel Vedado, c’è L’Hotel Nacional, che ha ospitato tutti gli artisti e attori più famosi da Errol Flynn a Spencer Tracy. Ha ancora gli ascensori originali e uno strepitoso impianto di posta pneumatica con dettagli di ottone massiccio (per i più giovani: un sistema di tubi dove venivano sparati dei bussolotti contenenti documenti e denaro), oltre a qualche chilometro quadrato di ceramiche andaluse originali.


 Guardo queste costruzioni non posso fare a meno di pensare al loro futuro, quindi al loro restauro. Ci sono state novità politiche sia a Cuba sia negli USA: le piccole aperture dei Castro e soprattutto l’ascesa di Bernie Sanders. Socialdemocratico, ma solo perchè la parola comunista è ancora proibita. 


Si può sognare, e finanziare, un modello di restauro che tenga in conto le esigenze di tutti? Della municipalità che non riscuote quasi tasse, ma deve garantire infrastrutture e servizi, attraverso reti in alcuni casi ottocentesche. Degli esperti che reclamano un restauro corretto anche se costosissimo a causa dei materiali originalmente impiegati, pregiati e provenienti dall’Europa. Infine degli abitanti, da generazioni eroici curatori di queste meraviglie che hanno mantenuto in piedi da soli e senza l’aiuto di nessuno e che non meritano di essere riposizionati in anonimi palazzoni lungo Avenida Rancho Boyeros, a diciotto chilometri dal mare. Si deve a loro, al fatto che ne sono stati per moltissimi anni gli usufruttuari gratuiti a non i proprietari e alla mancanza di materiali e mezzi se questi palazzi non sono stati modificati, ritoccati, stravolti.


 C’è poi chi pensa che la soluzione migliore sarebbe di non fare nulla, e lasciare che questi edifici, quasi tutti orgogliosamente firmati sulla facciata dai loro architetti ritornino al mare sotto forma di sabbia e di ossido ferroso, che si consumino finché le impalcature di legno montate per sostenerli sorreggano unicamente se stesse. E chi vuole ammirarli, che venga adesso.

Ho visto la prima nave da crociera americana entrare nella baia, un fatto storico. A bordo alcuni esuli, per la prima volta di nuovo a Cuba. Tra loro, immagino, alcune spie. Ho visto i turisti scendere nel nulla di Habana Vieja ed essere caricati su bici taxi-verso case private, dove a gruppi di cinque o sei ricevevano il pranzo. I capitani di queste navi hanno preso l’abitudine di sparare alla partenza una salva di quaranta o cinquanta colpi col cannoncino di segnalazione. Distruggendo ogni mio tentativo di siesta e accentuando l’impressione di trovarsi in un paese in guerra non dichiarata. Ci sono i marciapiedi sfondati, i balconi crollati, le facciate puntellate. Ci mancava, appunto, il cannoneggiamento.


San Nicolas, come pure Galiano, è stata asfaltata per l’arrivo di Obama che ci è passato per recarsi all’Hotel Nacional. Non è stata una visita di Stato, ma una visita ufficiale. La differenza? che Raúl Castro non è andato a riceverlo all’aeroporto.  Intollerabile sarebbe stata per l’elettore americano una foto di Obama che stringe la mano di Raul Castro. 


Brucia ancora l’onta di Playa Giron (Baia dei Porci): sconfitta militare, ostaggi sequestrati e riscattati. Se invece di reagire bloccando l’esportazione di Coca Cola verso Cuba avessero analizzato con attenzione le ragioni della sconfitta, ne avrebbero potuto evitare una lunga serie: Saigon, Managua, Mogadiscio. Tutte incredibilmente uguali: terreno carsico, abbondanti corsi d’acqua, giungla, le immancabili risaie impossibili da distruggere. E poi un esercito di contadini, enormemente più combattivi dei marines, che lottano al pugnale fino all’ultimo. Ancora oggi, un’eventuale invasione militare di Cuba diventerebbe un assoluto incubo per gli USA. Di sicuro più facile invaderla di dollari.


Obama ha mangiato in un ristorante consigliatogli da Celine Dion, mentre per dormire ha optato per l’Hotel Nacional al Vedado. Scelta direi infelice, non solo perché è a pochi metri dalla neo ambasciata Usa, ma soprattutto perché fu sede nel 1946 della Mafia Conference, veri e propri stati generali della mafia con tanto di delegati, programmi e votazioni. Vince Lucky Luciano e la sua linea di puntare solo sul gioco d’azzardo e non sulla droga (altri tempi). Il tutto con la benedizione del governo USA grato, perché Cosa Nostra ha protetto i porti americani durante la seconda Guerra Mondiale. La prima trattativa Stato-Mafia.


In questo momento, inevitabilmente tutti guardano agli USA e aspettano un aiuto. Chi s’illude che sia imminente un nuovo piano Marshall per Cuba farà bene ad aprire gli occhi. Un piano Marshall era possibile negli anni '40 dove i consumi crescevano in USA dal 1938 al 1949 del 70% contro il 3% europeo. Significa che una sola briciola caduta dal banchetto USA poteva alimentare il motore europeo.  Oggi la crescita in USA c’è ma si misura in un misero +2,4 % (dato 2015) ed è ottenuta quasi esclusivamente attraverso spese militari e una costante migrazione interna di imprenditori e lavoratori.


Chi afferma che, come indicano gli studi di settore, proprio qui ad Habana c’è la crescita immobiliare più forte in tutto il mondo dovrebbe ricordare che come dicono gli americani, esistono tre tipi di bugie: “Le bugie, le fottute bugie e la statistica”. Le quotazioni non possono altro che crescere dato che partivano da un livello totalmente irrealistico, più o meno dallo stesso livello di Vicolo Corto nel Monopoli. Dovrebbero inoltre provare, costoro, a cercare un sacco di cemento e qualche mattone ad Habana.


Gli investitori USA non sono propensi a investire in paesi instabili, con burocrazie e sindacati troppo forti. Non occorre cercare lontano, l’Italia ne è un esempio, trovandosi solo al 29° posto tra i paesi che hanno beneficiato d’investimenti USA, parecchio indietro anche rispetto a Olanda e Irlanda.


Cambierà Cuba, non cambierà? E che ne so! Gli Ayatollah Castro dovevano cadere nel 1992 con l’abbandono da parte dei sovietici, poi mille altre volte con Elian Gonzalez e poi con Clinton. Bisogna dire che Cuba è stata molto più brava ad agitare lo spauracchio USA di quanto non siano stati gli USA ad agitare lo spettro cubano. Tutti quelli che hanno previsto la caduta degli Ayatollah hanno sbagliato, in particolare gli undici presidenti USA che, chi più chi meno, avevano scommesso sulla fine dei Castro: Dwight Eisenhower, John Fitzgerald Kennedy, Lyndon Johnson, Richard Nixon, Gerald Ford, Jimmy Carter, Ronald Regan, George Bush, Bill Clinton, George Walker Bush, Barack Obama.


Ormai in Italia nessuno mi chiede più di Cuba, tutti leggono che sono arrivati gli Stones e Obama e concludono che Cuba è cambiata. Sorrido, e non mi dispiace di sentirmi liberato da questa responsabilità di opinionista. 

Mi concentro per un paio d’ore sulle nuvole che arrivano sul Malecon, così incredibilmente basse, veloci, opache, sfilacciate, irrequiete. Poche ore fa hanno sorvolato la Florida o la Louisiana. Sono così diverse dai placidi batuffoloni abbaglianti dell’Oriente di Cuba, che galleggiano sugli Alisei rotolando continuamente su se stesse.

Mi riempio dell’odore dolciastro della canna da zucchero, che si sente fin dentro ai quartieri periferici. Lo stesso che mi aveva assalito scendendo la scaletta dell’aereo 24 anni fa.


Torno ai miei edifici. L’historiador della città Eusebio Leal, un Renzo Piano cubano, è praticamente più famoso degli stessi Castro e fa le acrobazie con le poche risorse che gli arrivano dall’estero per salvare Habana. A parte il restauro integrale di Plaza Vieja, ha piazzato singoli colpi magnifici come il Focsa e Palacio de las Cariátides, spettacolare edificio in stile eclettico costruito del 1924. Ma non può fare nulla contro l’inarrestabile degrado di tutto il resto.


C’è il paradosso di un governo che dotato quasi ogni cittadina zuccheriera di provincia di un colorato Bulevar pedonale e che invece ha lasciato letteralmente crollare interi isolati del centro storico più bello dell’America latina. Che non ha minimamente gratificato quello che potrebbe essere il suo più grande contenitore di dissenso.


Mentre sono seduto sul tufo bollente del Malecón si fanno avanti tre ragazze i cui occhi ricordano la selva al mattino, la cui pelle rappresenta tre delle infinite sfumature tra il bianco e il nero. Il cui anno di nascita inizia col due. Spiego loro diplomaticamente che ho mal di testa questo pomeriggio. Iniziamo così a parlare della scuola, della loro vita in una barbacoa (soffitta) arroventata dietro al quartiere cinese. La famiglia allargata, fratellini impertinenti. E vogliono sapere della mia vita. Andiamo a bere qualcosa, io birra e loro Cola, sotto lo sguardo ammiccante dei camerieri. Ci salutiamo dopo diverse ore.  Mi chiedono alla fine con le loro labbra di ciliegia se il mal di testa mi è passato nel frattempo.


Su Concordia, al mattino presto, assisto a uno degli spettacoli più divertenti: arriva il professore di educazione fisica, transenna una fetta di strada con uno spago annodato. E fa lezione! I bambini indossano l’uniforme, solo un paio di loro possiedono i calzoncini e le scarpette da ginnastica. La scuola è gratuita, come lo sono l’asilo nido, il liceo, l’università, la casa, la salute e il dentista. E’ probabile che questo abbia a che fare con l’incredibile longevità degli Ayatollah di cui si scriveva sopra. Non c’è una palla (meglio, finirebbe inghiottita in qualche voragine sul marciapiede) non c’è un attrezzo. Non c’è nemmeno un gioco regolato. Solo salti, giravolte grida. I passanti, rassegnati, aggirano il blocco e prendono Virtutes. Vengono continuamente organizzati giochi, che però non iniziano mai.


Che sia proprio questa la metafora…. C’è nell’aria qualcosa che sta per cambiare, è ovvio che stia per cambiare, tutti vogliono che cambi. Eppure ogni mattina, al sorgere del sole, mi sembra che il cielo e il mare e le strade e le case dicano: “Cambierà, ma non sarà oggi….”.Penso a tutti quelli che mi diranno: “devo venire a Cuba prima che cambi”. Dopo una ventina d’anni che promuovo, nel mio piccolo, i viaggi a Cuba questa volta risponderò: “Non è cambiato niente, e poi fa troppo caldo.”


“Perché le canzoni sono là fuori”

21/12/15




 
Joe Strummer muore il 22 dicembre 2002 nella sua casa di Broomfield, Essex, subito dopo aver portato fuori i suoi cani. Chitarrista e cantautore, leader degli 101'ers, di cui fu fondatore e membro, dei Pogues e soprattutto dei Clash.  A portarlo via, a soli cinquant’anni, è un infarto dovuto a una malformazione cardiaca che si scoprirà solo con l’autopsia. Fondati nel 1976, i Clash si sono sciolti nel 1985. Disse Strummer: “Ci sono tante cose che possono distruggere un gruppo: l’ego, l’alcol, la droga e le donne. E noi cademmo vittima di tutte.” Segue una carriera come autore di colonne sonore e attore che gli porterà soddisfazioni personali ma non più il successo planetario dei Clash. Continuerà l’esperienza musicale coi Mescaleros, gruppo che formò nel 1995 e con cui lavorò fino alla morte, ma di fatto scompare dalla ribalta portandosi dentro il rimorso di avere distrutto una delle migliori band del secolo.
Si chiamava in realtà John Graham Mellor, Strummer (strimpellatore) è solo il soprannome che egli stesso si da per la sua tecnica chitarristica piuttosto rozza. Quando sale su un palco per la prima volta, infatti, sa suonare a malapena le quattro corde di un ukulele. Il suo idolo Sid Vicious dei Sex Pistols non sa suonare nemmeno quelle e imbraccia una chitarra non collegata all’amplificatore.
Le sue straordinarie doti di performer e una voce roca, graffiante e versatile gli bastano per procurarsi da mangiare come suonatore di strada, dopo aver abbandonato il collegio ed essere stato espulso dall’istituto d’arte Newport Art School il cui preside non gradisce una sua scultura fatta di assorbenti interni usati.  Strummer imparerà a suonare strada facendo, da musicisti formidabili come il violinista folk Tymon Dogg e Nick  Headon, il batterista dei Clash nonché unico componente con una reale preparazione musicale. Oggi, con l’industria discografica che si alimenta dalle ferree selezioni del talent show, questo ha dell’incredibile.
in cambio di 120 sterline, Strummer sposa nel 1975 la sudafricana Pamela Moolman, in modo che lei possa ottenere la cittadinanza britannica. Acquista così la Fender Telecaster del 1966 nera (poi coperta di adesivi) con tastiera in palissandro che lo accompagnerà per tutta la carriera. La chitarra è oggi un best seller tra le replica,  e sono disponibili anche le riproduzioni degli adesivi.
In quegli anni Strummer scopre l'esistenza di un mondo musicale che stava cominciando a formarsi, e a cui lui avrebbe preso parte pienamente, il punk.
I Clash, formati da Joe Strummer (voce, chitarra ritmica), Mick Jones (chitarra solista, voce), Paul Simonon (basso, voce) e Nick "Topper" Headon (batteria), legano la loro identità alla condizione giovanile proletaria inglese, invocano una presa di coscienza dei kids, pretendono il riscatto delle nuove generazioni, denunciano il vuoto e le sofferenze nelle quali sono costretti a vivere. I loro messaggi sono diretti e in fondo anche positivi nella loro rabbia, a differenza del nichilismo senza via d'uscita espresso dai Pistols.
London Calling è la consacrazione mondiale che porta i Clash all’apice del successo sulle due sponde dell’Atlantico. Strummer, che  incarna ormai il musicista di sinistra duro e puro, sempre schierato coi giovani e coi deboli, rimane lucido. Guarda già alla prossima tappa e capisce che il movimento punk è ancora vivo ma la musica punk non è più il suo unico linguaggio. Nato ad Ankara da un diplomatico britannico e cresciuto al Cairo e Città del Messico,  intuisce che i bianchi devono imparare dai neri a suonare e a ribellarsi (come canta in White Riot). Quei neri, caraibici e africani, con cui ha incrociato percorsi e destini e con cui ha condiviso cibo, case occupate e interminabili scorribande notturne. Nasce così il triplo album “Sandinista”, sigla FSLN1 nel catalogo CBS, da Frente Sandinista de Liberación Nacional, uno degli album più importanti della storia del rock. Le sue incursioni nei linguaggi reggae, dub, jazz, rap, rock,  valzer, calypso sono eclettiche, profonde e aggraziate e elevano il disco accanto a Sgt. Pepper’s dei Beatles (1967) che col sitar di Ravi Shankar avevano inventato la world music. Non mancano i brani completamente politici, tra i quali spicca certamente Washington Bullets, fortissima denuncia verso il coinvolgimento statunitense nell'America Centrale ed in Sudamerica (in particolare a Cuba ed in Cile), a loro parere di chiaro stampo fascista. Sandinista!, che ancora oggi è un’esperienza di ascolto memorabile, prese alla sprovvista molti fan, tra cui il futuro leader dei Nirvana Kurt Cobain che non mancò di criticare un album che avrebbe voluto “più punk”.
Oggi, padre di un adolescente, mi rendo conto di essere stato anch’io punk. Senza saperlo. Insieme a tutta la mia generazione compressa tra quella precedente, molto più militante, e quella successiva, molto più svelta e affarista. Una generazione che stentava a trovare il suo posto, che viveva nella perenne attesa che succedesse qualcosa, per poi raccogliere solo delusioni come la caduta del muro di Berlino e la successiva guerra in Bosnia.  Bravissimi solo a sgattaiolare fuori dalle nostre case, scuole e università dove non veniva mai detto niente che potesse minimamente riguardarci per schiacciarci, nel vero senso della parola, gli uni agli altri attorno alla musica, o su una panchina.
Non c´è un gruppo di cui oggi senta la mancanza più dei Clash e un cantautore di cui si senta la mancanza più di Strummer. La sua reputazione è in costante ascesa. La Strummerville Foundation, voluta da familiari e amici diffonde il suo legato musicale e sostiene progetti artistici giovanili. ”Il futuro non è scritto - Joe Strummer” del  regista britannico Julien Temple  (2007) è  un film-documentario pluri-premiato che racconta la sua vita. Il 21 maggio 2013 la municipalità di Granada, città che lui aveva citato in Spanish Bombs  (London Calling) gli ha dedicato una piazza. Lo strimpellatore avrebbe sicuramente gradito questo omaggio un po’ malizioso a un occupatore di case. Conosce molto bene la Spagna, ci va più riprese tra il 1985 e il 1997, gli sembra di trovare nella società  post-franchista lo stesso terreno fertile che aveva fatto nascere il punk in Inghilterra. A Granada ci va depresso e devastato dal rimorso per aver  licenziato l’altro compositore dei Clash, Mick Jones, causando di fatto lo scioglimento della band. Ci va alla ricerca della tomba di Federico Garcia Lorca, e anche di una Dodge 3700 GT acquistata a Madrid e poi lasciata in un parcheggio del quale il mattino successivo non ricorda più nulla. Nonostante l’aiuto dei fans spagnoli, mobilitati dai suoi appelli, la Dodge non sarà mai più ritrovata. 
Nel 2003 i Clash sono ammessi, con un discorso di the Edge degli U2, nella Rock’n Roll Hall of Fame.
Nel novembre del 2009 la stampa riferisce che nel consiglio comunale di Tonara (NU) è stato proposto di dedicare una via a Joe Strummer, sarebbe stato il primo caso in Italia di intestazione di una via cittadina a un personaggio del punk. Poco tempo dopo, l'assessore ai lavori pubblici smentisce la notizia.
Il 4 luglio 2013 il comune di Bologna dedica l'Arena Parco Nord a Joe Strummer, che proprio in quella location si esibì in uno dei suoi ultimi concerti nel 1999.
Anche se non bisognerebbe mai farlo, viene da chiedersi come avrebbe guardato oggi Strummer a quel mondo che con l’espressione del suo talento e la sua integrità aveva reso un posto leggermente migliore in cui vivere. Avrebbe cantato “Rock the Casbah” a Baghdad? Avrebbe suonato ai funerali degli adolescenti negri uccisi dalla polizia in USA? Avrebbe lavorato al programma culturale di qualche governo illuminato, che oggi bisognerebbe probabilmente cercare in America Latina, come aveva fatto Frank Zappa con Vaclav Havel nel 1990 a Praga?
E cosa avrebbe detto Strimpellatore dopo la sparatoria al Bataclan di Parigi? Dove rivolgerebbe il suo sguardo caustico, ma generoso, di fronte all’inguardabile agonia di questa nostra civiltà? Agonia che lui aveva intravisto, solo più composta, meno oscena, meno barbara. Avrebbe probabilmente aperto la finestra per ascoltare il frastuono notturno della città di Londra. Questo era sufficiente, diceva, per scrivere una buona canzone. “Perché le canzoni sono là fuori”.

La lezione più grande

27/10/12


Mary Ann Vecchio inginocchiata davanti allo studente Jeffrey Miller (foto John Filo)

La canzone “Ohio” è stata scritta da Neil Young dopo i tragici avvenimenti del 4 maggio 1970, durante i quali quattro studenti vennero uccisi dalla Guardia Nazionale USA nel campus della Kent State University, nello stato dell'Ohio. Era in pieno svolgimento la guerra del Vietnam, circa 500 mila uomini erano impiegati nel piccolo paese del Sud-Est asiatico. Per fare un raffronto, in Iraq ne sono stati impiegati 150 mila.
 
Nella Kent State University (Kent è la capitale dello stato) si svolgeva una delle tante manifestazioni contro la guerra. La protesta si era intensificata dopo l'invasione della Cambogia e quindi l'estensione della guerra, pochi mesi prima. Il battaglione G della Guardia Nazionale di stanza in Ohio (circa 70 uomini) aprì il fuoco ad altezza d'uomo, senza motivo apparente. Dopo la breve sparatoria (13 secondi) rimasero uccisi sul terreno quattro studenti, due ragazzi e due ragazze, tutti tra i 19 e i 20 anni, e altri 9 vennero feriti, uno dei quali (Dean Khaler) rimase paralizzato. I nomi degli studenti uccisi sono: Allison Krause (19), William Schroeder (19), Jeffrey Miller (20), Sandra Scheuer (20). Non tutti gli studenti uccisi partecipavano alla manifestazione, ma soltanto Miller e la Krause, mentre gli altri due stavano andando da una classe all'altra.
L'uccisione di quattro studenti bianchi e di buona famiglia (la prima volta negli USA) non causò grossi problemi al presidente Richard Nixon, che sarà rieletto. Ma in tutto il paese fu fortissima l’ondata di sdegno, amplificata dalle foto del fotografo John Filo che furono pubblicate su “Life” e gli valsero l’anno successivo il premio giornalistico Pullitzer.
 
Il brano venne composto da Neil Young pochi giorni dopo i fatti. Subito uscito come singolo a nome del gruppo Crosby, Stills, Nash & Young (Find The Cost Of Freedom di Stephen Stills era il lato B) e quindi inserito nel fortunato doppio album live "Four Way Street", è entrato immediatamente nel circuito radiofonico FM USA diventando un classico ed uno dei brani rock più noti di sempre.
Neil Young dichiarò: "Mi è ancora difficile credere che abbia dovuto scrivere questa canzone. E' (tristemente) ironico che io abbia guadagnato sulla morte di questi studenti americani. Probabilmente è la lezione più importante mai imparata in luogo di cultura americano.”
 
OHIO

Tin soldiers and Nixon coming,
We're finally on our own.
This summer I hear the drumming,
Four dead in Ohio.

Gotta get down to it
Soldiers are gunning us down
Should have been done long ago.
 
What if you knew her
And found her dead on the ground
How can you run when you know?
 
Gotta get down to it
Soldiers are gunning us down
Should have been done long ago.
 
What if you knew her
And found her dead on the ground
How can you run when you know?
 
Tin soldiers and Nixon coming,
We're finally on our own.
This summer I hear the drumming,
Four dead in Ohio.


 
OHIO

Nixon sta arrivando con i (suoi) soldatini di piombo
e noi finalmente siamo (uniti) da questa parte.
In questa estate sento il rullo dei tamburi,
quattro morti nell'Ohio.

Dobbiamo rendercene conto,
i soldati ci stanno prendendo a fucilate,
"dovevano farlo già molto tempo fa"

Nixon sta arrivando con i (suoi) soldatini di piombo
e noi finalmente siamo (uniti) da questa parte.
In questa estate sento il rullo dei tamburi,
quattro morti nell'Ohio.

Cosa diresti se tu la conoscessi
e la trovassi morta per terra,
come puoi scappare quando lo sai?

Nixon sta arrivando con i (suoi) soldatini di piombo
e noi finalmente siamo (uniti) da questa parte.
In questa estate sento il rullo dei tamburi,
quattro morti nell'Ohio.
 
 
 



  
 
  
 
  
 
  
 
  
 
  
 
 
  
  
  
  

 

Dispatches from Chechnya

20/04/12


Sono stato a Mosca. Ho avuto, cosa che non capita quasi mai in una trasferta di lavoro, anche il tempo di vagabondare per la città. L’imponente Piazza Rossa con i campanili-gelato. Lenin (apparentemente) imbalsamato. I formidabili tesori del Cremlino. Lo Shuttle sovietico Buran, un faraonico progetto spaziale (vi lavorarono oltre un milione di persone) che contribuì economicamente al crollo del regime comunista e ora allieta i bambini in un angolo estremo del Gorkij Park, affacciato sulla quieta Moscova.

Ma la mia testa era con Anna.




Anna Politkovskaja nasce il 30 agosto 1958 a New York, figlia di diplomatici sovietici presso l’ONU e studia giornalismo all'Università di Mosca. La sua carriera inizia nel 1982 al famoso giornale moscovita Izvestija, che lascerà nel 1993. Dal 1994 al 1999, lavora alla Obščaja Gazeta.
A partire dal giugno 1999 fino alla fine dei suoi giorni, lavora per la Novaja Gazeta. Nello stesso periodo pubblica alcuni libri, fortemente critici contro Vladimir Putin, sulla conduzione della guerra in Cecenia, Daghestan ed Inguscezia. Spesso per il suo impegno professionale viene minacciata di morte.
Nel 2003 pubblica il suo terzo libro, A Small Corner of Hell: Dispatches From Chechnya (tradotto in Italia con il titolo Cecenia, il disonore russo), in cui denuncia la guerra brutale in corso in Cecenia dove migliaia di cittadini innocenti sono torturati, rapiti o uccisi dalle autorità federali russe o dalle forze cecene. Durante la stesura del libro, la Politkovskaja si è avvalsa anche delle testimonianze di militari russi.
Anna viene ritrovata morta il 7 ottobre 2006, giorno del compleanno dell'allora presidente russo Vladimir Putin, nell'ascensore del suo palazzo a Mosca. La prima pista seguita fu quella dell'omicidio premeditato e operato da un killer a contratto. Il mandante è ancora oggi sconosciuto: voci non confermate imputano il delitto proprio al presidente Putin, più volte bersaglio di pesanti critiche da parte della giornalista.
Dal 1993 ad oggi sono stati uccisi in Russia 294 giornalisti, fotografi e operatori radio-televisivi. Alto anche il numero dei giornalisti che sono scomparsi senza lasciare tracce (7 tra il 2001 e il 2004). Numerosi anche i giornalisti stranieri, tra i quali il freelance italiano di Radio Radicale Antonio Russo, il cui corpo fu rinvenuto il 16 ottobre 2000, orribilmente torturato, nelle vicinanze di Tbilisi, capitale della Georgia.
Politkovskaya, massima espressione in Russia del giornalismo investigativo, è stata la quinta vittima, in un decennio, dello stesso giornale: il quotidiano dell’opposizione Novaya Gazeta
Nonostante quello che ho letto sulla tua implacabile determinazione vedo in questa tua foto, Anna, uno sguardo puro e mite. Lo sguardo di un’amica che è sempre pronta a correre quando c’è bisogno, anche quando il ragazzino della portinaia ha preso un brutto voto. Hai insegnato che un giornalista non deve vendersi mai. Nemmeno per la cassetta di vini a Natale, nemmeno per le minacce di morte. Sapevi di essere condannata e, dicono, non permettevi più a colleghi e famigliari di accompagnarti per non esporli a grossi rischi. La tua colpa è stata, con le tue parole, quella di essere "semplicemente una persona che descrive quello che succede a chi non può vederlo”. La tua colpa è stata di criticare un regime che tutti sanno essere brutale e corrotto ma di cui nessuno, soprattutto l’Italia, può fare a meno.

Per Anna.




Per nessun oro e merce al mondo

09/09/11

Liao Yiwu è il Solzenitsyn cinese. Poeta dissidente, pubblicò durante l’eccidio di Tienanmen la durissima ballata “Massacro” che gli valse quattro anni nei Laogai, i gulag cinesi. Lo accomuna a Solzenitsyn non solo l’esilio in Germania, ma anche un romanzo “Per un canto e cento canti”, riscritto tre volte perché il manoscritto gli veniva sequestrato, che descrive la sua odissea nelle carceri cinesi. Lui spera che il suo “Canto” possa aiutare i cinesi, come fece “Arcipelago Gulag” con i sovietici, a riflettere sugli abusi del loro regime.



"L’Espresso” del 1 settembre 2011 ha pubblicato una sua intervista di Stefano Vastano di cui riporto alcuni brani:



(…)

Ha subito torture e sevizie sessuali: che cosa la tormenta di più di quell’orrore?

“Se penso alle sofferenze più atroci mi risale in mente d’aver dormito per mesi tra due condannati a morte. Erano legati mani e piedi alle catene. Non è facile dormire con quel rumore di catene: li dovevo accompagnare alla toilette, pulirne gli escrementi, imboccarli sino ai loro ultimi minuti di vita. Dovevo raccontarlo questo orrore quotidiano."



Nonostante i tremila morti di Tienammen (tra cui la sorella e tantissimi amici) e gli altrettanti dissidenti spediti in galera, Liao Yiwu coltiva una speranza:



(...)

Ma non è orgoglioso delle prestazioni del suo popolo nel campo dell’economia? "Attenzione, non ci facciamo illusioni, la Cina è un Titanic destinato ad affondare. Al contadino che vive del suo orto, e al normale cittadino, come al poliziotto che mi perseguita, non viene nulla dei miliardi e delle merci di cui scrivono giornali e TV globali. Ma poi, ecco, dopo aver detto che tutti sono schiavi, ho un po’ di speranza.”



Quale?“È semplice, anche se paradossale. Mi chiedo: cosa vuole che generi nei cinesi una vita di stenti, e vedere i figli della nomenklatura che studiano all’estero e nei più sfrenati agi? E rispondo: genera rabbia. Ecco perché la Cina è una grande nave con una gigantesca bomba a bordo: da un momento all’altro, per un disastro ecologico o per la rabbia di cittadini vessati, può saltare in aria. E io credo, ecco il mio ottimismo, che nonostante tutto il regime abbia gli anni contati. Aggiungo: per questo la politica occidentale nei confronti della Cina è miope. Per nessun oro e merce al mondo si possono corteggiare dittatori che trattano come cani gli esseri umani, e che sono destinati a un inglorioso tramonto.”

Il capitano è fuori a pranzo (2)

29/05/11



7° giorno
Se penso alla terra, e lo faccio molto di rado, ci penso solo in termini di passato e mai in termini di futuro. Riesco a vedere solo quello che è stato, non vedo quello che sarà. Ho chiamato casa col telefono satellitare soltanto una volta. E solamente, lo confesso, per non sfigurare di fronte all'altro padre a bordo che chiama sua figlia tutti i giorni. La alla mia giornata è dominata da altri pensieri: “Girerà finalmente il vento oggi? Riuscirà Paola a cucinare una pastasciutta?”

8° giorno
Abbocca un Dorado di sessanta centimetri, questa volta il pesce è in buona salute. La sentenza è eseguita per bicchiere di Rum nelle branchie al posto delle randellate sulla testa che sono incivili e potrebbero ammaccare la coperta. E poi dicono che i superalcolici non fanno male! Mentre la vita se ne va dal suo corpo sento un brivido solenne lungo la schiena, ma non ho nessun rimpianto. Dopo tutto è l’unica cosa che togliamo all’Oceano da quando siamo partiti. Una breve sosta in forno e il pesce è già nei nostri piatti. E’ passata un’ora dalla cattura.

9° giorno
Questo Oceano è Il solo luogo dove sono stato di cui posso dire: “Lo potrò rivedere in un altro momento della mia vita e non sarà cambiato”. Lo vedo oggi come si presentava quando fu creato, poi quando fu solcato dai primi navigatori, poi dalla ciurma di Colombo. Lo vedo oggi come lo vedranno, lo spero, i miei discendenti. Nient’altro che vento, nuvole e onde.
Questo Oceano è Il solo luogo dove sono stato che mi fa sentire libero. Libero di una libertà che non è liberarsi di qualcosa. Libero di una libertà che è aggiungere qualcosa: la consapevolezza che è ancora possibile vivere senza piani, senza soldi, senza assicurazioni, senza banche, senza automobili. E’ qualcosa che mi cresce dentro e quindi può anche fare un po’male, come un nuovo dente che si fa strada in mezzo a gli altri, come un succo di rabarbaro amaro che scende giù nella gola.
Questo Oceano è il solo luogo dove sono stato che mi ha fatto sentire molto, molto vicino a vedere il volto di Dio.

10° giorno
Durante la giornata ci fa visita un branco di delfini, che però prosegue subito la sua rotta verso sud. Finita la mia guardia notturna, mi ritiro in cuccetta. Nel dormiveglia mi assale la sensualità. Me l'aspettavo, mi chiedevo anzi quando sarebbe successo. Dapprima è vaga, indefinita. E’ voglia di abbracciare qualcuno, di avere un contatto, di accarezzare mio figlio in mezzo alle scapole. Poi diventa più definita: in un breve sogno investo alcuni stipendi per una notte con Ruby Rubacuori, su cui si era scherzato durante il giorno. Inevitabile a questo punto il passaggio al controllo manuale che mi regala un sonno lungo e delizioso. Ruby può attendere. La terra più vicina (si fa per dire) è la Nuova Scozia. Fino a pochi giorni fa non ne avevo mai neppure sentito parlare.

11° giorno
I delfini avvistati ieri portano buone notizie. Arriva di notte nel turno mio e di Andrea, che siamo i due smanettoni del gruppo, il tanto atteso cambio di vento. Con sorprendente rapidità allenta la sua morsa boliniera e gira al gran lasco. Otteniamo dallo skipper (lui non sale nemmeno in coperta, è l’uomo che vede e sente attraverso la vetroresina) il permesso di lanciare Penelope 1 a tutta vela e iniziamo a ridiscendere con orgogliosa sicurezza le onde che ci avevano fatto soffrire di bolina. Se la bolina è una strada di montagna piena di buche, il gran lasco è un’autostrada a otto corsie: dritta e veloce. Procediamo a nove nodi, poi dieci, alzando due baffi di schiuma fosforescenti di plancton che arrivano compatti fino all’altezza del boma. La barca vola sospesa su un gigantesco cuscino di luce al neon, Il plancton è così luminoso stanotte che i grumi più brillanti ci appaiono come navi all’orizzonte.

12° giorno
Al risveglio, sembra che il cambio di vento abbia dato alla testa a qualcuno: siamo fermi in mezzo al mare, e dallo stereo di bordo esce “Shine on your crazy diamonds” dei Pink Floyd a un volume impossibile. Scendo dalla cuccetta e cerco di capire chi abbia preso il comando e con quali intenzioni. Invece sono solo in corso le grandi pulizie dopo undici giorni di bolina. Si arieggiano le cabine, si pulisce e si cambiano le lenzuola. Un’ora dopo siamo di nuovo in rotta. Nel pomeriggio un branco di delfini inizia a seguirci. Due esemplari adulti rimangono a nuotare tranquillamente nella nostra scia, come due mamme che chiacchierano tra loro ai giardinetti. I piccoli si scatenano sotto la nostra prua. Vanno a cercare l’onda di pressione che produciamo col nostro movimento in avanti. Incrociano più volte a destra e a sinistra, poi virano bruscamente e sfrecciano verso poppa mostrandoci la pancia bianca, probabilmente uno sberleffo. Instancabili, riguadagnano la prua scrutandoci con attenzione. Noto che sono molto interessati ai nostri movimenti e ai colori dei vestiti che indossiamo. Tutti insieme si producono in un repertorio di salti: quelli in alto e soprattutto quelli orizzontali: passano da un’onda all’altra nuotando a velocità folle. Vederli arrivare verso la barca con le loro traiettorie tese e le schiene grigie è uno spettacolo che mette quasi paura, sembrano siluri lanciati verso di noi. Ci accompagnano per tutto il pomeriggio e anche durante la notte vediamo chiaramente le loro pinne tagliare lo strato di plancton. In tutte queste ore non abbiamo gettato in acqua alcun cibo, loro ci seguono esclusivamente per gioco. Oppure, chissà, forse vanno dalla stessa nostra parte e vogliono fare un pezzo di strada assieme.

13° giorno
Tredici giorni fa i miei compagni di avventura erano dei perfetti sconosciuti che trascinavano i loro bagagli sul pontile di St. Martin. Oggi so delle loro speranze e delle loro delusioni più di quanto non sappia di molti miei amici sulla terraferma. Dopo il mio turno, scendo sottocoperta a compilare il diario di bordo, mi cambio, bevo un the e mi lavo i denti. Ma non posso andare in cuccetta se prima non ho dato un’occhiata fuori e non ho visto che gli altri due compagni di guardia stanno bene.

14° giorno
Ormai siamo entrati nel clima temperato e navighiamo nuovamente di bolina. Le notti sono più cupe e plumbee, diverse da quelle caraibiche. Riprendiamo a sbattere sulle onde. Alle quattro e mezzo di mattina di oggi non è il solito mortaio quello che mi arriva ma un razzo Katyusha con una traiettoria orizzontale che si schianta sulla fiancata vicinissimo alla mia faccia. Mi sveglio di colpo con una sensazione di catastrofe, ma vedo che tutto è a posto e i due di turno chiacchierano tranquillamente. E’ stata un’onda parecchio più ripida delle altre che ha colpito la fiancata.

15° giorno
Freddo, pioggia. Mare scuro, cielo coperto con luce cangiante. Osservo per molte ore il volo magistrale delle sule (piccoli gabbiani color cenere). Senza muovere neppure una piuma, volteggiano a pochi centimetri dalla cresta dell’onda e scendono giù nel cavo. Del tutto indifferenti a noi nella loro eterna ricerca di cibo.

17° giorno.
Horta ci appare intorno alle diciotto, entriamo nel porto a mezzanotte. I miei primi passi sul molo sono difficili, il corpo non è più abituato a camminare. Si cena e si apre una Magnum di Champagne che portiamo con noi da St. Martin che rappresenta il premio per questa rapida traversata di cui siamo orgogliosi. E’ andato tutto bene, l’Oceano è stato più clemente di quanto mi aspettassi.

28 aprile 2011
Ogni mio muscolo è dolorante per le camminate. Solo oggi mi sono reso conto di essere davvero arrivato, di essere tornato nel mondo. E’ successo quando ho compiuto un gesto che era ormai sepolto nella mia memoria: attraversare la strada. Era così sepolto che ho esitato almeno dieci minuti sul marciapiede prima di trovare lo spazio giusto. Percepisco il calore salire dai cofani delle auto e l’odore dei freni pizzicarmi il naso. Riprendono i miei starnuti allergici.

Foto: 18 aprile 2011, autoritratto.