Troppo caldo

04/12/16




L’aereo da Mexico City è in ritardo di otto ore, oppure diciotto. Non so. Mi sono imbarcato a Las Vegas che era già sera e non ho mai visto sorgere il sole in tutto questo tempo. O forse sì, non ricordo.


La notte habanera è buia come una bocca di lupo. I fari del taxi illuminano brevemente un angolo, un portone, un bidone di spazzatura sventrato, un cane che dorme. I padroni della casa particular mi aspettano sulla porta.


Mi sveglio la mattina successiva in un quartiere di Habana che conoscevo poco: Centro Habana, per la precisione sono all’incrocio tra San Lazaro san Nicolas. Venendo dal Malecón (il lungomare), il riferimento è l’Hotel Deauville, con l’inconfondibile skyline blu.Stavolta il sole è sorto eccome, e picchia. Habana però sa essere anche tiepida, in certi angoli ombreggiati e ventosi.


Inizio a esaminare queste strade camminando verso l’ospedale Hermanos Amejeiras. Gli edifici sono belli, maestosi e cadenti. Mancano le parole per descrivere le ringhiere di ferro battuto dei balconi, e le loro travi ormai scoperte dall’azione del tempo e del mare. Alcuni dettagli affrescati, i portoni di legno intarsiato. Le serrande sulla strada prodotte in Spagna quasi un secolo fa. Struggenti i palazzi che hanno dovuto essere puntellati dopo il collasso della parte interna. Quasi intatta la facciata, mentre il corpo è sparito e al suo posto crescono alberi.  Quando il vento li fa ondeggiare, sembra da una certa angolazione che dietro le finestre sia in corso una qualche baruffa.


Gli edifici che resistono sembrano aver incorporato la bellezza sognante di quelli che non ce l’hanno fatta. Una passeggiata su queste strade dovrebbe essere obbligatoria per chiunque aspiri a diventare un architetto.In questi pochi chilometri quadrati ci sono alcuni edifici che rappresentano il prototipo dello stile cui appartengono. L’Edificio Bacardi è il miglior esempio mondiale di Art  Nouveau. L’imponente edificio FOCSA, ma siamo già nel Vedado, terminato nel 1956  era in quel momento il secondo edificio in cemento armato più grande del mondo dopo il Martinelli Building a San Paolo, Brasile.

Sempre nel Vedado, c’è L’Hotel Nacional, che ha ospitato tutti gli artisti e attori più famosi da Errol Flynn a Spencer Tracy. Ha ancora gli ascensori originali e uno strepitoso impianto di posta pneumatica con dettagli di ottone massiccio (per i più giovani: un sistema di tubi dove venivano sparati dei bussolotti contenenti documenti e denaro), oltre a qualche chilometro quadrato di ceramiche andaluse originali.


 Guardo queste costruzioni non posso fare a meno di pensare al loro futuro, quindi al loro restauro. Ci sono state novità politiche sia a Cuba sia negli USA: le piccole aperture dei Castro e soprattutto l’ascesa di Bernie Sanders. Socialdemocratico, ma solo perchè la parola comunista è ancora proibita. 


Si può sognare, e finanziare, un modello di restauro che tenga in conto le esigenze di tutti? Della municipalità che non riscuote quasi tasse, ma deve garantire infrastrutture e servizi, attraverso reti in alcuni casi ottocentesche. Degli esperti che reclamano un restauro corretto anche se costosissimo a causa dei materiali originalmente impiegati, pregiati e provenienti dall’Europa. Infine degli abitanti, da generazioni eroici curatori di queste meraviglie che hanno mantenuto in piedi da soli e senza l’aiuto di nessuno e che non meritano di essere riposizionati in anonimi palazzoni lungo Avenida Rancho Boyeros, a diciotto chilometri dal mare. Si deve a loro, al fatto che ne sono stati per moltissimi anni gli usufruttuari gratuiti a non i proprietari e alla mancanza di materiali e mezzi se questi palazzi non sono stati modificati, ritoccati, stravolti.


 C’è poi chi pensa che la soluzione migliore sarebbe di non fare nulla, e lasciare che questi edifici, quasi tutti orgogliosamente firmati sulla facciata dai loro architetti ritornino al mare sotto forma di sabbia e di ossido ferroso, che si consumino finché le impalcature di legno montate per sostenerli sorreggano unicamente se stesse. E chi vuole ammirarli, che venga adesso.

Ho visto la prima nave da crociera americana entrare nella baia, un fatto storico. A bordo alcuni esuli, per la prima volta di nuovo a Cuba. Tra loro, immagino, alcune spie. Ho visto i turisti scendere nel nulla di Habana Vieja ed essere caricati su bici taxi-verso case private, dove a gruppi di cinque o sei ricevevano il pranzo. I capitani di queste navi hanno preso l’abitudine di sparare alla partenza una salva di quaranta o cinquanta colpi col cannoncino di segnalazione. Distruggendo ogni mio tentativo di siesta e accentuando l’impressione di trovarsi in un paese in guerra non dichiarata. Ci sono i marciapiedi sfondati, i balconi crollati, le facciate puntellate. Ci mancava, appunto, il cannoneggiamento.


San Nicolas, come pure Galiano, è stata asfaltata per l’arrivo di Obama che ci è passato per recarsi all’Hotel Nacional. Non è stata una visita di Stato, ma una visita ufficiale. La differenza? che Raúl Castro non è andato a riceverlo all’aeroporto.  Intollerabile sarebbe stata per l’elettore americano una foto di Obama che stringe la mano di Raul Castro. 


Brucia ancora l’onta di Playa Giron (Baia dei Porci): sconfitta militare, ostaggi sequestrati e riscattati. Se invece di reagire bloccando l’esportazione di Coca Cola verso Cuba avessero analizzato con attenzione le ragioni della sconfitta, ne avrebbero potuto evitare una lunga serie: Saigon, Managua, Mogadiscio. Tutte incredibilmente uguali: terreno carsico, abbondanti corsi d’acqua, giungla, le immancabili risaie impossibili da distruggere. E poi un esercito di contadini, enormemente più combattivi dei marines, che lottano al pugnale fino all’ultimo. Ancora oggi, un’eventuale invasione militare di Cuba diventerebbe un assoluto incubo per gli USA. Di sicuro più facile invaderla di dollari.


Obama ha mangiato in un ristorante consigliatogli da Celine Dion, mentre per dormire ha optato per l’Hotel Nacional al Vedado. Scelta direi infelice, non solo perché è a pochi metri dalla neo ambasciata Usa, ma soprattutto perché fu sede nel 1946 della Mafia Conference, veri e propri stati generali della mafia con tanto di delegati, programmi e votazioni. Vince Lucky Luciano e la sua linea di puntare solo sul gioco d’azzardo e non sulla droga (altri tempi). Il tutto con la benedizione del governo USA grato, perché Cosa Nostra ha protetto i porti americani durante la seconda Guerra Mondiale. La prima trattativa Stato-Mafia.


In questo momento, inevitabilmente tutti guardano agli USA e aspettano un aiuto. Chi s’illude che sia imminente un nuovo piano Marshall per Cuba farà bene ad aprire gli occhi. Un piano Marshall era possibile negli anni '40 dove i consumi crescevano in USA dal 1938 al 1949 del 70% contro il 3% europeo. Significa che una sola briciola caduta dal banchetto USA poteva alimentare il motore europeo.  Oggi la crescita in USA c’è ma si misura in un misero +2,4 % (dato 2015) ed è ottenuta quasi esclusivamente attraverso spese militari e una costante migrazione interna di imprenditori e lavoratori.


Chi afferma che, come indicano gli studi di settore, proprio qui ad Habana c’è la crescita immobiliare più forte in tutto il mondo dovrebbe ricordare che come dicono gli americani, esistono tre tipi di bugie: “Le bugie, le fottute bugie e la statistica”. Le quotazioni non possono altro che crescere dato che partivano da un livello totalmente irrealistico, più o meno dallo stesso livello di Vicolo Corto nel Monopoli. Dovrebbero inoltre provare, costoro, a cercare un sacco di cemento e qualche mattone ad Habana.


Gli investitori USA non sono propensi a investire in paesi instabili, con burocrazie e sindacati troppo forti. Non occorre cercare lontano, l’Italia ne è un esempio, trovandosi solo al 29° posto tra i paesi che hanno beneficiato d’investimenti USA, parecchio indietro anche rispetto a Olanda e Irlanda.


Cambierà Cuba, non cambierà? E che ne so! Gli Ayatollah Castro dovevano cadere nel 1992 con l’abbandono da parte dei sovietici, poi mille altre volte con Elian Gonzalez e poi con Clinton. Bisogna dire che Cuba è stata molto più brava ad agitare lo spauracchio USA di quanto non siano stati gli USA ad agitare lo spettro cubano. Tutti quelli che hanno previsto la caduta degli Ayatollah hanno sbagliato, in particolare gli undici presidenti USA che, chi più chi meno, avevano scommesso sulla fine dei Castro: Dwight Eisenhower, John Fitzgerald Kennedy, Lyndon Johnson, Richard Nixon, Gerald Ford, Jimmy Carter, Ronald Regan, George Bush, Bill Clinton, George Walker Bush, Barack Obama.


Ormai in Italia nessuno mi chiede più di Cuba, tutti leggono che sono arrivati gli Stones e Obama e concludono che Cuba è cambiata. Sorrido, e non mi dispiace di sentirmi liberato da questa responsabilità di opinionista. 

Mi concentro per un paio d’ore sulle nuvole che arrivano sul Malecon, così incredibilmente basse, veloci, opache, sfilacciate, irrequiete. Poche ore fa hanno sorvolato la Florida o la Louisiana. Sono così diverse dai placidi batuffoloni abbaglianti dell’Oriente di Cuba, che galleggiano sugli Alisei rotolando continuamente su se stesse.

Mi riempio dell’odore dolciastro della canna da zucchero, che si sente fin dentro ai quartieri periferici. Lo stesso che mi aveva assalito scendendo la scaletta dell’aereo 24 anni fa.


Torno ai miei edifici. L’historiador della città Eusebio Leal, un Renzo Piano cubano, è praticamente più famoso degli stessi Castro e fa le acrobazie con le poche risorse che gli arrivano dall’estero per salvare Habana. A parte il restauro integrale di Plaza Vieja, ha piazzato singoli colpi magnifici come il Focsa e Palacio de las Cariátides, spettacolare edificio in stile eclettico costruito del 1924. Ma non può fare nulla contro l’inarrestabile degrado di tutto il resto.


C’è il paradosso di un governo che dotato quasi ogni cittadina zuccheriera di provincia di un colorato Bulevar pedonale e che invece ha lasciato letteralmente crollare interi isolati del centro storico più bello dell’America latina. Che non ha minimamente gratificato quello che potrebbe essere il suo più grande contenitore di dissenso.


Mentre sono seduto sul tufo bollente del Malecón si fanno avanti tre ragazze i cui occhi ricordano la selva al mattino, la cui pelle rappresenta tre delle infinite sfumature tra il bianco e il nero. Il cui anno di nascita inizia col due. Spiego loro diplomaticamente che ho mal di testa questo pomeriggio. Iniziamo così a parlare della scuola, della loro vita in una barbacoa (soffitta) arroventata dietro al quartiere cinese. La famiglia allargata, fratellini impertinenti. E vogliono sapere della mia vita. Andiamo a bere qualcosa, io birra e loro Cola, sotto lo sguardo ammiccante dei camerieri. Ci salutiamo dopo diverse ore.  Mi chiedono alla fine con le loro labbra di ciliegia se il mal di testa mi è passato nel frattempo.


Su Concordia, al mattino presto, assisto a uno degli spettacoli più divertenti: arriva il professore di educazione fisica, transenna una fetta di strada con uno spago annodato. E fa lezione! I bambini indossano l’uniforme, solo un paio di loro possiedono i calzoncini e le scarpette da ginnastica. La scuola è gratuita, come lo sono l’asilo nido, il liceo, l’università, la casa, la salute e il dentista. E’ probabile che questo abbia a che fare con l’incredibile longevità degli Ayatollah di cui si scriveva sopra. Non c’è una palla (meglio, finirebbe inghiottita in qualche voragine sul marciapiede) non c’è un attrezzo. Non c’è nemmeno un gioco regolato. Solo salti, giravolte grida. I passanti, rassegnati, aggirano il blocco e prendono Virtutes. Vengono continuamente organizzati giochi, che però non iniziano mai.


Che sia proprio questa la metafora…. C’è nell’aria qualcosa che sta per cambiare, è ovvio che stia per cambiare, tutti vogliono che cambi. Eppure ogni mattina, al sorgere del sole, mi sembra che il cielo e il mare e le strade e le case dicano: “Cambierà, ma non sarà oggi….”.Penso a tutti quelli che mi diranno: “devo venire a Cuba prima che cambi”. Dopo una ventina d’anni che promuovo, nel mio piccolo, i viaggi a Cuba questa volta risponderò: “Non è cambiato niente, e poi fa troppo caldo.”