Goldene medine (*)

28/11/14


 foto Dario Ansaloni
 
Permesso, anzi quasi chic, tornare dall'America e dire che non ci è piaciuta. Proibito, a mio avviso, dire che siamo stati in America e non abbiamo imparato anche una grande lezione.

Sul lavoro. La pazienza infinita con cui gli americani sopportano, pur di acquistare il made in Italy, tutti i nostri numerosi –ismi (mammismo, infantilismo, machismo, pressapochismo…) e le nostre due più gravi malattie nazionali: la capacità di risolvere i problemi all’ultimo secondo e solo all’ultimo secondo. La completa incapacità, invece, di mettere a fuoco anche con tutto l’aiuto esterno i nostri punti deboli. Che poi sono sempre gli stessi, e coi quali ci giochiamo la quota legittima di talento che a ciascuno di noi hanno lasciato in eredità i nostri antenati greci e romani insieme a rovine indubbiamente redditizie. La pazienza infinita con cui sopportano il venditore medio italiano, vanitoso e irrequieto. Con le sue giacche di sartoria (“perfetta anche dopo dieci ore di aereo”), con le sue scarpe da 600 euro, con i suoi “solo perché sei tu”, con il suo blocchetto di ricevute taxi già timbrate, acquistato (lo dico per i colleghi che non lo sapessero) dai soci della cooperativa “Taxi centrale” di Napoli per 15 €. Non trattabili, data la natura dell’articolo. Con il suo incredibile repertorio di scuse per una ritardata consegna (“elezioni comunali, molti dei nostri operai sono stati chiamati a fare gli scrutatori”). E soprattutto con il suo sapere di lirica, di automobili, di donne, di investimenti, di arte. Insomma di tutto, tranne che del proprio prodotto.
Però gli americani sono sempre lì a dire quanto siamo bravi, quanto gli piacerebbe venire in Italia, quanto gli piacerebbe in fondo anche essere italiani, e come basti mangiare al ristorante delle non meglio identificate “fettuccini Alfredo” per sentirsi in Italia anche solo per un paio d’ore.  Quanto devono invidiarci se hanno chiamato alcune loro località senza qualità Naples, Syracuse, Ravenna. C’è persino, non lo sapevo e non potevo credere ai miei occhi, una Lodi, Ohio in omaggio alla nostra nebbiosa cittadina, incastonata tra Piacenza e Milano e dedita soprattutto all’allevamento. Decisamente sconosciuta se non fosse, solo di recente, per il nostro tesoro nazionale Bianca Balti.

Non serve nemmeno venire in USA per lavoro, un attento osservatore capirà già solo al ristorante di che pasta è fatto questo popolo. Camerieri e cameriere sono tutti giovanissimi e sorridenti “sono Samantha, Jenny, Milly, Hugh…. e mi occuperò di lei stasera”. Il protocollo è praticamente identico, dappertutto: la birra te la portano in pochi secondi, perfettamente spillata, ti viene da chiederti come fanno. Poi vengono a prendere l’ordine, e il menu interminabile lo sanno tutto a memoria. A metà del piatto passano a chiederti “tutto bene con lei, signore?” Poi ritirano il piatto e chiedono se vuoi un’altra birra. Se rispondi di no tirano fuori dal grembiule il conto, già preparato. Se invece bevi ancora ti portano da bere e ristampano il conto aggiornato. Impeccabili, professionali, veloci. Vorrei fermarmi qualche minuto a guardare le facce dei clienti e i pezzi dell’arredamento della gigantesca steak house in cui mi trovo, piena di televisori giganti che trasmettono lo sport. Non credo ai miei occhi: su una cornice in legno massiccio c’è una piccola etichetta che dice “non sono sporca ma solo un po’ vecchia”. Non sono contrario alle alleanze coi giovani, purché i giovani non ci mettano solo la giovinezza. Deve essere un’alleanza alla pari. Ho capito subito come posso mettere in crisi Samantha, Jenny, Milly, Hugh: “Quale birra mi consigli, quale berresti tu?”. Per contratto o per educazione loro non possono ammettere di conoscere le birre e di farne uso. Verso la fine del mio viaggio ho perfezionato la domanda in “Quale bevono i tuoi amici?”. L’effetto imbarazzante è garantito.   
Impossibile parlare di USA e non parlare del loro flagello biblico: gli avvocati. Onnipresenti, agguerriti, senza freni inibitori. Uno di loro è su un immenso cartellone al lato della highway (ma non immenso come i nostri, proprio immenso-immenso). In sella a una Harley, pubblicizza assistenza legale per gli incidenti in moto! Un altro si è specializzato in class actions contro una causa farmaceutica che ha messo in commercio un medicinale dannoso. In TV proclama: “avete sofferto danni, invalidità o persino la morte a causa del farmaco X? Chiamate Tigers of Law!”. Fantastico il lapsus (ma sarà poi un lapsus?): se sei morto, chiama le Tigri della Legge!  
 
Findlay, Ohio. Sbuca dall'angolo un balordo che borbotta tra se "What a nation of cowards we 've become!" (che nazione di codardi siamo diventati). Mi prende di sorpresa, con la guardia abbassata. Lo inchiodo con uno sguardo: “Sgomma bro, che qui non ce n’è. E soprattutto non pensare nemmeno di passarmi dietro le spalle”. In USA noi europei commettiamo tutti lo stesso errore, cioè stiamo sempre sul chi vive, siamo impauriti. Non capiamo che il negro di due metri che troviamo fuori dall'ascensore e che ci fa sobbalzare di paura vuole in realtà solo aiutarci con la valigia, tenerci aperta la porta, aiutarci a trovare la reception, il bar, il parcheggio. Non capiamo che la ragazza con faccia patibolare che ci viene incontro nel parcheggio ci vuole solo chiedere: “How are you doing this evening!”. Che il poliziotto di Newark dal cognome polacco, il cui viso non va per niente d’accordo con la sua uniforme, vuole solo accompagnarci di persona al nostro gate. Il balordo di Findlay capisce e mi passa davanti, in orbita di sicurezza. Lo guardo allontanarsi lungo la Main Road, continua a borbottare. Davanti a un building abbandonato si china persino a raccogliere una cartaccia e la getta nel cestino. Mi spiace in fondo lasciare andar via l'unica persona che avrebbe forse potuto aiutarmi a capire quel che non ho ancora capito di questo paese, cioè molto. Ad esempio dove inizia la fognatura da cui escono i ratti violenti, i gunmen liceali di Columbine che vanno a giocare a bowling prima di sparare ai loro compagni di scuola, i moonshiners distillatori clandestini che si nascondono nei boschi degli Appalachi, i fumatori di crack.

Capisco invece, anche se solo per un attimo, come si possa desiderare di dormire col cannone sotto il cuscino. Mi succede in un motel isolato in Pennsylavania, mentre sento passi pesanti salire la scala del parcheggio. Per tutta la giornata i media hanno raccontato in diretta della caccia a Eyre, l’ultimo dei gunmen. Così uguale a tutti gli altri: faccia da bravo ragazzo, un passato nelle forze speciali,  addestramento e condizione fisica formidabili. Tiene in scacco i federali e i loro cani da una settimana muovendosi nei boschi. Lo prenderanno la mattina dopo alle sei, nell’hangar di un piccolo aeroporto abbandonato, tutto il suo arsenale praticamente intatto. Il colpo in canna che deciderà di non piantarsi in testa. Sceglie la tuta arancione, e quasi sicuramente il braccio della morte (ha ucciso due poliziotti). Alle otto gli abitanti del posto già mostrano in  TV le t-Shirt commemorative, mentre il governatore che essi hanno eletto non si vergogna di ringraziare pubblicamente il suo dio feroce per aver permesso la cattura di Eyre da vivo.  


(*) Stato d'oro, in yiddish