27/09/14


Ponte della Scafa

“Abbiamo passato Orte!”.

La frase annunciava il termine della tormentata tratta appenninica, con le sue gallerie così dolorose per i timpani, e l’ingresso nella pianura, allagata dal sole nascente, che precede Roma. Dal finestrino del vagone cuccette ammiravo il paesaggio sapendo che poco dopo avrei visto i cortili dei primi caseggiati della città eterna con le automobili e i motorini parcheggiati. Poi l’ingresso trionfale a Roma Termini tra due ali di tetti rossastri stracolmi di antenne. Pensavo all’inizio che Roma Termini fosse Roma. Era così grande per me Roma Termini che pensavo fosse la città di Roma. Primo contatto con un edificio più grande di quanto potessi perfino immaginare, coi suoi formidabili soffitti nervati e i 26 binari o giù di lì, con il suo frastuono soffuso.  Primo contatto, folgorante, con la razza che il mio atlante De Agostini definiva “negroide” ma che rispetto alla foto aveva le labbra più fini, il naso allungato, una generale magrezza e una pelle più opaca con un riflesso di peltro. Erano i somali e gli etiopi che bivaccavano in stazione, avvolti in abiti sgargianti lavati e stirati di fresco. Parlavano e si muovevano come principesse e dignitari di corte, e probabilmente lo erano. Non mi degnavano di uno sguardo, nemmeno quando mi avvicinavo a pochi centimetri da loro. Molti anni dopo, attraverso confidenze raccolte solo tra soli uomini e solo in camera caritatis ebbi altre al conferme al mio entusiasmo: avrei appreso da viaggiatori esperti e poco morigerati che la donna nubiana (proveniente dalla Nubia, cioè l’Africa Nord-orientale) è la più bella, la più ricercata e la più desiderata di tutto il mondo

Termini era piena di piccoli bar, e c’era persino un barbiere. Tutto spazzato oggi via da anonime catene di franchising.

Scoprii solo dopo che la città di Roma inizia ai due lati della galleria. A destra, provenendo dai binari, i taxi e una pasticceria tutta legni e ottoni. A sinistra un quartiere più gastronomico, salato, di pizze al taglio incredibilmente unte. E botteghe di macellai, porchettai, salumieri tutti con un paio di tavoli con la tovaglia di carta dove si poteva consumare un pasto allo stesso tempo fugace e solido prima di imbarcarsi sul treno. Dove giovinastri compravano, con soldi guadagnati chissà come, quantità di cibo per andare allo stadio o da una fidanzata. 

E’ vero che tutte le strade portano a Roma, ma nel mio caso tutte le strade portavano al Ponte della Scafa. L’ultimo ponte sul fiume Tevere, a circa due kilometri dalla foce. Non ricordo mai di aver fatto due volte la stessa strada. A volte in metropolitana fino alla stazione Ostiense, poi in treno fino a Fiumicino. Oppure in treno fino a Ostia poi in autobus. Oppure all’EUR e da qui in autobus, con un paio di tappe che nemmeno ricordo. Sembrava che una forza centripeta ci dovesse allontanare dal centro di Roma e ci facesse orbitare in periferia per poi darci lo slancio fino al mare.

Qualche volta si prendeva un pullman che da Termini andava all’aeroporto di Fiumicino. Nemmeno lui faceva due volte la stessa strada. Il vice-autista indossava la stessa camicia dell’autista, solo stirata meglio. Il vice metteva sù una cassetta che faceva “Gira de qua gira de là, semo romani e volemo cantà”. Poi estraeva un paio di Ray Ban da una custodia che teneva fissata alla cintura. Commentava i lavori in corso, insultava gli automobilisti e faceva il cascamorto con le passeggere. Il mezzo si fermava spesso al cenno invisibile di alcuni personaggi che salivano a bordo lesti come gatti portando con loro un involto di pizza o un sacchetto di verdura. Scendevano, e poi un’altro saliva. I tre iniziavano a confabulare “… ti manda i saluti”, “…l’operazione è andata bene”, “…mi ha detto sua madre che si è deciso a cercare lavoro.” I nuovi arrivati parlavano con una velocità e una precisione tali da farmi pensare che il loro mestiere potesse essere  proprio quello, importantissimo, del messaggero. Di colui che porta le notizie dalla sua propria vertebra di competenza a quella successiva, lungo la spina dorsale di una città in continua crescita. Arrivando al Leonardo da Vinci per la prima volta, rimasi stupefatto nel leggere a grandi lettere gialle “Aeroporto intercontinentale”. Avevo già preso un paio di voli nazionali, e sapevo naturalmente che esistevano voli internazionale. Ma che ce ne fossero di intercontinentali questo proprio non lo sapevo.   

L’autobus Menarini arancione macinava nel cambio grossi detriti con scossoni che strappavano le gomme sull’asfalto. Si scendeva al Ponte della Scafa sotto lo sguardo compassionevole dell’autista. Ponte della Scafa era un luogo di zanzare, di rane. Caldo torrido in estate, freddo umido in inverno. Lì si trova il più grande assembramento di barche da diporto in Italia, probabilmente di tutto il Mediterraneo. Interamente abusivo, ma nessuno usava questa definizione. Si diceva piuttosto: “La delibera è già firmata”. Contente le barche di essere ormeggiare tutte con la prua verso la città eterna e in lento movimento a causa della corrente. Gli ormeggi iniziavano dalla foce vera e propria con i circoli più esclusivi, che hanno anche il prato per le signore e il parco giochi per i bambini. Risalendo la corrente ci sono quelli intermedi, che hanno il chiosco delle bibite. Ancora più a monte inizia il Bronx nautico, dove gli ormeggi non hanno proprio nulla e non un piontile piantato nel canneto, che finisce al Ponte della Scafa che essendo estremamente basso sull’acqua segna il limite della navigabilità. Un luogo che non potrebbe esistere, che invece esiste e funzionava già allora perfettamente. Un luogo al centro di un distretto nautico fatto di velai, cantieri, meccanici che sbucavano dal nulla per prestare il loro servizio. Da noi c’era anche Filippo che, col suo ristorante, ci faceva sempre mangiare, ma solo quello che voleva lui, senza soluzione di continuità dalla colazione alla cena. Non di rado noi ci sedevamo per la cena mentre altri ospiti finivano il pranzo. C’era poi Rock, il guardiano dell’ormeggio, un pastore pastore tedesco ragionevole di giorno ma che di notte era capace di tenerti bloccato per le caviglie fino al mattino se ti avventuravi sul pontile. Bellisima la natura con uccelli meravigliosi, a centinaia, che andavano e venivano nella brezza pomeridiana.

Io avevo le mie piccole corvée a bordo ma anche qualche incarico di politica estera “Dice il papà se ci può prestare ancora il cacciavite col manico arancione”. Però mi rimaneva tanto, tantissimo tempo per bighellonare lungo il fiume. Per raccolgliere pezzi di legno macchiati di pittura, perfetti per misurare la velocità della corrente nei vari punti del fiume. Per curiosare tra le barche, assistere agli alaggi e ai lavori e ascoltare i commenti, mai concordi che accompagnano questi momenti.. della gru. Il solo divieto era di non entrare mai in contatto, per nessun motivo, con l’acqua del Tevere. Mi successe un giorno mentre armeggiavo con una pompa di sentina e credetti che sarei stato fulminato dopo pochi secondi come dal morso di un Mamba. Invece sopravvissi e mi guardai bene dal rivelare l’episodio che mi sarebbe costato l’analisi del sangue. Mi piace pensare che sia stato quel sorso di elisir di veleni. a rendermi pittosto resistente alla malattie   

Quando era il momento di partire, occorreva fare i conti con la “barra”  un infido rilievo di sabbia che alza il fondale nel punto in cui la corrente che spinge in fuori si scontrava col mare che invece spinge indentro. Spesso di doveva ritornare all’ormeggio al Ponte della Scafa perché il fiume non voleva farci uscire. Si riprovava, con altri temerari, l’alba seguente. Impazienti di raggiungere le acque della vacanza, si diceva allora “o la va o la spacca” e si forzava il blocco col cuore in gola ogni volta che la barca discendeva nel cavo dell’onda. Poi l’acqua diventava più blu, il silenzio più totale e il litorale laziale con le sue dune iniziava a scorrere via in lontananza, illuminato dal primo sole.

        

La “sbeccazida”

Invidio, ho sempre invidiato genovesi e romani. Per il modo in cui amano le loro città, i loro quartieri coi loro odori, per il modo in cui persino i granelli di sabbia scricchiolano sotto le loro scarpe e solo sotto le loro scarpe. Non posso dire altrettanto, i miei antenati sono stati (de)portati qui a Bolzano da altri luoghi. Non ho una città, non ho un dialetto, la sabbia sotto le mie scarpe non fa nessun rumore. Forse per questo, per riempire la mancanza originale, mi sono interessato fin da bambino alle lingue e ai dialetti. Li ho mescolati e ne ho inventati di nuovi, anche con l’aiuto di alcuni amici geniali.

La “sbeccazida” si deve a un amico romano di nascita, cresciuto a Genova, scaraventato infine a Bolzano. In seconda o terza media inventò questa frase: “Ué, ‘ta ‘tent vé ca gö el beccüz cur cubelt! Si te dö ‘na sbeccazida ti se’ mört!”. Traduzione: “Ehi,stai attento sai che ho il becco (rinforzato) col cobalto! Se ti do una beccata sei morto!”.
Chissà che diavolo di baruffe si agitavano nella sua fantasia! Credo che questo dialetto esprimesse la meraviglia del romano che sale al nord. È anche possibile che avesse sentito arrivare, con vent’anni di anticipo, il leghismo. Cioè che avesse sentito calare su di se il becco del nord.