Ho deciso per le vacanze dei miei quarant’anni di fare qualcosa di pericoloso. Turismo sessuale a Bangkok? No, non così pericoloso. Ho attraversato l’Atlantico a vela da St. Martin (Caraibi) a Horta (Azzorre, Portogallo). 2451 miglia, 17 giorni in mare attraverso 4 fusi orari. Come i calci di punizione di Maradona, la nostra rotta non ha seguito la linea retta, ma una curva verso nord. Inizialmente lungo la costa USA verso le isole Bermuda, poi sotto la Nuova Scozia e infine dritto verso le Azzorre. A causa della curvatura terrestre, la parabola è più breve della linea retta. Un concetto apparentemente paradossale e difficile come il suo nome: rotta ortodromica. Del tutto inutile chiedermi perché ho attraversato l’Atlantico a vela, non lo so neppure io. L’ho fatto perché mi andava.
Non sono il primo marinaio che ritorna a terra e tira fuori dal suo sacco gli appunti che è riuscito a prendere in mare. Tutti uguali, i marinai. Tormentano di correzioni i poveri fogli di carta. Poi salgono al faro, affondati in un bavero, e scrutano il mare. Bestemmiano in tutte le lingue che conoscono e in quelle che hanno imparato tra bettole e bordelli. Bestemmiano per non riuscire a trovare in nessuna di queste lingue le parole adatte per descrivere in modo in cui la schiuma sferzata dal vento si precipita verso il cavo dell’onda e si separa in tante striature simili a quelle della tigre che gonfia la schiena prima di spiccare il balzo e piombare in coperta. Bestemmiano per non riuscire a descrivere il fischio del vento, squarciato dai frangenti, che fa accapponare la pelle del timoniere più della campana a morto. Un rumore agghiacciante che non ha uguali in nulla che si possa udire sulla terraferma. Qualcuno che ha fatto la non invidiabile esperienza di udirli entrambi l'ha paragonato all'ululato di un branco di lupi così affamati da aver già iniziato a mordersi tra loro alle anche. Oppure alle sciabolate della tempesta di neve nei crepacci sull'interminabile parete nord dell'Eiger.
Tutti uguali i marinai, cedono a questo punto alle tentazioni del vino e del plagio. Non c'è un altro settore della narrativa che abbia conosciuto così tanti processi di questo tipo. Come se le tempeste non fossero tutte uguali e la cosa importante nel momento fatale fosse descriverle e non sopravviverle. I polmoni dilatati nello sforzo impossibile di respirare attraverso le nuvole di schiuma vaporizzata. Gli occhi brucianti e quasi accecati, sbarrati sulla catastrofe imminente. I piedi malfermi sulla coperta e, migliaia di metri più sotto, su immensi cimiteri di marinai.
La paccottiglia è già tutta venduta, i soldi quasi finiti. Il libro non prende forma. La terra non ha più senso. Finalmente arriva un nuovo imbarco, si parte.
Che le tempeste del mare non sono nulla in confronto a quelle dell’anima.
7 aprile 2011
St. Martin, m’imbarco su Penelope 1. Lei è bellissima, veloce. Gli armatori Eugenio e Paola sono molto professionali e simpatici. Non potevo aspettarmi di meglio per questa traversata. Ora l’Oceano non è più un sogno lontano, ma è lì dietro al molo. E’ immenso, concreto, e mi aspetta. Inizio a chiedermi: “Cosa sto facendo?”
8 aprile 2011
Completato l’equipaggio, si fa il briefing. Dopo le informazioni sulla navigazione, lo skipper butta lì qualcosa che tutti i marinai sanno bene: se un membro dell’equipaggio morisse a bordo lontano da terra (tutta la nostra rotta è lontana da terra) lui cercherebbe via radio una nave munita di cella frigorifera disposta a caricare il corpo. Se non vi riuscisse entro pochi giorni, metterebbe il corpo in un sacco da spi (una vela) e lo seppellirebbe in mare per ovvi motivi sanitari. Il sacco dello spi diventa l'oggetto di lazzi e battute da parte dell’equipaggio, ma Eugenio ha colpito nel segno: tutti capiscono che non stiamo partendo per una vacanza.
1° giorno
Si parte, finalmente, e la mia ansia svanisce appena metto mano a drizze e scotte. Per tutto il pomeriggio bordeggiamo in vista della terra, al tramonto l’orizzonte diventa solo liquido. Entrano in vigore le regole del briefing e l’ora GMT. Sarà questa a darmi nei primi giorni i maggiori problemi. In tutti i mari del mondo vige sulle navi l’ora di Londra. E’ una norma che permette di darsi appuntamenti, di calcolare rotte e posizioni. Il problema è che ci troviamo a -4 ore da quell’orario e quindi il sole sorge e tramonta secondo l’ora locale. Insomma, non ci capisco più niente. Ho affrontato senza grossi problemi anche jet lags anche molto pesanti, ma questo è un disorientamento completamente diverso. Sono di turno, insieme ad un compagno, dalle 12 alle 16 e dalle 24 alle 04. Le ore al timone sono le più belle, me le godo fino in fondo. Il resto del tempo lo passo in cuccetta a cercare di riposare, a mangiare e a mettere in ordine le mie cose. M’impongo di essere un membro di equipaggio affidabile, controllo ogni cosa più e più volte. Cerco di non intralciare gli altri. La navigazione è piuttosto scomoda, si bolina mure a dritta, la barca è costantemente inclinata e ogni tanto lo scafo sbatte sull’onda. Da fuori il colpo è solo fastidioso, ma dalla mia cuccetta il rumore è amplificato dalla struttura interna ed è una vera e propria esplosione.
Splendida nottata. Le nuvole basse e bianche degli alisei mi passano veloci sulla testa. Vedo anche un arcobaleno notturno del tutto uguale a quello diurno. Solo che è illuminato dalla luna anziché dal sole e quindi è nei toni del grigio. Insieme agli altri timonieri, inizio a conoscere Penelope e a capire come tirarle fuori la massima velocità. La timono come timonavo il mio vecchio 470. Concentrato, rivolgo lo sguardo solo al segnavento in testa d’albero e alle onde che si avvicinano nel buio davanti alla prua.
3° giorno
La mattina, quando rivedo il sole, non posso fare a meno di chiedermi: “Dove sono?” Non trovo nessuna risposta. Sono in un continente liquido, in effetti non sono da nessuna parte. E’ davvero un’altra dimensione. Per buona parte della giornata siamo accompagnati da due uccelli coda di paglia. Specie di piccoli gabbiani con un filamento giallo attaccato alla coda. Sono incuriositi da noi e si lasciano ammirare mentre giocano e pescano. Nel pomeriggio catturato un simil-barracuda di 90 cm, dalle stupende striature azzurre. Viene rilasciato, non è commestibile in quanto portatore di una neurotossina su cui non posso essere più preciso. Ammiro i suoi occhioni neri e vi scorgo, più che lo smacco di essere stato ingannato da un amo avvolto in semplice carta stagnola, un interrogativo: “Cosa cavolo ci fate voi qua in mezzo?” In fondo sono sollevato che l’amico se la sia cavata con il certificato medico.
4° giorno
Ho provato molte volte la solitudine nella mia vita. Per necessità, più spesso per scelta. Davanti alla vetrina di un negozio chiuso la domenica pomeriggio. Su un treno oppure su un aereo alla fine del mondo. Ma nulla è come questa solitudine. La solitudine di questo oceano è incommensurabile. Si attenua solo se penso che forse questi elementi non sono contrari a lasciarci passare. Le nuvolette bianche che volano sopra il nostro albero e i continui balzi dei pesci volanti mi fanno pensare che l’oceano è indifferente, ma non contrario, al nostro passaggio. L’oceano è maestoso, silenzioso, bello. Ma non ostile, almeno fino a qui.
6° giorno
Primo mare grosso, il vento rinforza e la prua sbatte sulle onde. La mia cuccetta è dalla parte “sbagliata” cioè in alto e inclinata. Anche quando riesco a prendere sonno in questa posizione scomoda, devo fare i conti coi boati dei colpi sulle onde. Sono colpi di mortaio che mi esplodono in mezzo ai piedi e interrompono il sonno faticosamente conquistato. Se durante il sonno veglio, durante la veglia dormo. I due stati si mescolano ormai, e io stesso non so più distinguerli. Eppure riesco a fare tutto quello che devo fare, solo con più lentezza, attingendo a una riserva energetica insospettabile. Navigo da molti anni e non ho mai avuto la paura tipica di chi si avvicina per la prima volta alla barca: di avere sotto di se migliaia di metri di acqua e solo uno scafo a tenerti a galla. Allo stesso modo chi corre in moto non ha paura della velocità e chi fa paracadutismo non ha paura dell’altezza. Tuttavia oggi in cuccetta, mentre sento l’acqua scorrere lungo lo scafo a pochi centimetri da me e l'ossatura di Penelope 1 che geme sommessamente, penso ai versi di Omero: “Tra la vita e la morte di un marinaio ci sono due dita di fasciame”.
(segue)
Foto: 12 aprile 2011, il tramonto da Penelope 1
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