Il capitano è fuori a pranzo (2)

29/05/11



7° giorno
Se penso alla terra, e lo faccio molto di rado, ci penso solo in termini di passato e mai in termini di futuro. Riesco a vedere solo quello che è stato, non vedo quello che sarà. Ho chiamato casa col telefono satellitare soltanto una volta. E solamente, lo confesso, per non sfigurare di fronte all'altro padre a bordo che chiama sua figlia tutti i giorni. La alla mia giornata è dominata da altri pensieri: “Girerà finalmente il vento oggi? Riuscirà Paola a cucinare una pastasciutta?”

8° giorno
Abbocca un Dorado di sessanta centimetri, questa volta il pesce è in buona salute. La sentenza è eseguita per bicchiere di Rum nelle branchie al posto delle randellate sulla testa che sono incivili e potrebbero ammaccare la coperta. E poi dicono che i superalcolici non fanno male! Mentre la vita se ne va dal suo corpo sento un brivido solenne lungo la schiena, ma non ho nessun rimpianto. Dopo tutto è l’unica cosa che togliamo all’Oceano da quando siamo partiti. Una breve sosta in forno e il pesce è già nei nostri piatti. E’ passata un’ora dalla cattura.

9° giorno
Questo Oceano è Il solo luogo dove sono stato di cui posso dire: “Lo potrò rivedere in un altro momento della mia vita e non sarà cambiato”. Lo vedo oggi come si presentava quando fu creato, poi quando fu solcato dai primi navigatori, poi dalla ciurma di Colombo. Lo vedo oggi come lo vedranno, lo spero, i miei discendenti. Nient’altro che vento, nuvole e onde.
Questo Oceano è Il solo luogo dove sono stato che mi fa sentire libero. Libero di una libertà che non è liberarsi di qualcosa. Libero di una libertà che è aggiungere qualcosa: la consapevolezza che è ancora possibile vivere senza piani, senza soldi, senza assicurazioni, senza banche, senza automobili. E’ qualcosa che mi cresce dentro e quindi può anche fare un po’male, come un nuovo dente che si fa strada in mezzo a gli altri, come un succo di rabarbaro amaro che scende giù nella gola.
Questo Oceano è il solo luogo dove sono stato che mi ha fatto sentire molto, molto vicino a vedere il volto di Dio.

10° giorno
Durante la giornata ci fa visita un branco di delfini, che però prosegue subito la sua rotta verso sud. Finita la mia guardia notturna, mi ritiro in cuccetta. Nel dormiveglia mi assale la sensualità. Me l'aspettavo, mi chiedevo anzi quando sarebbe successo. Dapprima è vaga, indefinita. E’ voglia di abbracciare qualcuno, di avere un contatto, di accarezzare mio figlio in mezzo alle scapole. Poi diventa più definita: in un breve sogno investo alcuni stipendi per una notte con Ruby Rubacuori, su cui si era scherzato durante il giorno. Inevitabile a questo punto il passaggio al controllo manuale che mi regala un sonno lungo e delizioso. Ruby può attendere. La terra più vicina (si fa per dire) è la Nuova Scozia. Fino a pochi giorni fa non ne avevo mai neppure sentito parlare.

11° giorno
I delfini avvistati ieri portano buone notizie. Arriva di notte nel turno mio e di Andrea, che siamo i due smanettoni del gruppo, il tanto atteso cambio di vento. Con sorprendente rapidità allenta la sua morsa boliniera e gira al gran lasco. Otteniamo dallo skipper (lui non sale nemmeno in coperta, è l’uomo che vede e sente attraverso la vetroresina) il permesso di lanciare Penelope 1 a tutta vela e iniziamo a ridiscendere con orgogliosa sicurezza le onde che ci avevano fatto soffrire di bolina. Se la bolina è una strada di montagna piena di buche, il gran lasco è un’autostrada a otto corsie: dritta e veloce. Procediamo a nove nodi, poi dieci, alzando due baffi di schiuma fosforescenti di plancton che arrivano compatti fino all’altezza del boma. La barca vola sospesa su un gigantesco cuscino di luce al neon, Il plancton è così luminoso stanotte che i grumi più brillanti ci appaiono come navi all’orizzonte.

12° giorno
Al risveglio, sembra che il cambio di vento abbia dato alla testa a qualcuno: siamo fermi in mezzo al mare, e dallo stereo di bordo esce “Shine on your crazy diamonds” dei Pink Floyd a un volume impossibile. Scendo dalla cuccetta e cerco di capire chi abbia preso il comando e con quali intenzioni. Invece sono solo in corso le grandi pulizie dopo undici giorni di bolina. Si arieggiano le cabine, si pulisce e si cambiano le lenzuola. Un’ora dopo siamo di nuovo in rotta. Nel pomeriggio un branco di delfini inizia a seguirci. Due esemplari adulti rimangono a nuotare tranquillamente nella nostra scia, come due mamme che chiacchierano tra loro ai giardinetti. I piccoli si scatenano sotto la nostra prua. Vanno a cercare l’onda di pressione che produciamo col nostro movimento in avanti. Incrociano più volte a destra e a sinistra, poi virano bruscamente e sfrecciano verso poppa mostrandoci la pancia bianca, probabilmente uno sberleffo. Instancabili, riguadagnano la prua scrutandoci con attenzione. Noto che sono molto interessati ai nostri movimenti e ai colori dei vestiti che indossiamo. Tutti insieme si producono in un repertorio di salti: quelli in alto e soprattutto quelli orizzontali: passano da un’onda all’altra nuotando a velocità folle. Vederli arrivare verso la barca con le loro traiettorie tese e le schiene grigie è uno spettacolo che mette quasi paura, sembrano siluri lanciati verso di noi. Ci accompagnano per tutto il pomeriggio e anche durante la notte vediamo chiaramente le loro pinne tagliare lo strato di plancton. In tutte queste ore non abbiamo gettato in acqua alcun cibo, loro ci seguono esclusivamente per gioco. Oppure, chissà, forse vanno dalla stessa nostra parte e vogliono fare un pezzo di strada assieme.

13° giorno
Tredici giorni fa i miei compagni di avventura erano dei perfetti sconosciuti che trascinavano i loro bagagli sul pontile di St. Martin. Oggi so delle loro speranze e delle loro delusioni più di quanto non sappia di molti miei amici sulla terraferma. Dopo il mio turno, scendo sottocoperta a compilare il diario di bordo, mi cambio, bevo un the e mi lavo i denti. Ma non posso andare in cuccetta se prima non ho dato un’occhiata fuori e non ho visto che gli altri due compagni di guardia stanno bene.

14° giorno
Ormai siamo entrati nel clima temperato e navighiamo nuovamente di bolina. Le notti sono più cupe e plumbee, diverse da quelle caraibiche. Riprendiamo a sbattere sulle onde. Alle quattro e mezzo di mattina di oggi non è il solito mortaio quello che mi arriva ma un razzo Katyusha con una traiettoria orizzontale che si schianta sulla fiancata vicinissimo alla mia faccia. Mi sveglio di colpo con una sensazione di catastrofe, ma vedo che tutto è a posto e i due di turno chiacchierano tranquillamente. E’ stata un’onda parecchio più ripida delle altre che ha colpito la fiancata.

15° giorno
Freddo, pioggia. Mare scuro, cielo coperto con luce cangiante. Osservo per molte ore il volo magistrale delle sule (piccoli gabbiani color cenere). Senza muovere neppure una piuma, volteggiano a pochi centimetri dalla cresta dell’onda e scendono giù nel cavo. Del tutto indifferenti a noi nella loro eterna ricerca di cibo.

17° giorno.
Horta ci appare intorno alle diciotto, entriamo nel porto a mezzanotte. I miei primi passi sul molo sono difficili, il corpo non è più abituato a camminare. Si cena e si apre una Magnum di Champagne che portiamo con noi da St. Martin che rappresenta il premio per questa rapida traversata di cui siamo orgogliosi. E’ andato tutto bene, l’Oceano è stato più clemente di quanto mi aspettassi.

28 aprile 2011
Ogni mio muscolo è dolorante per le camminate. Solo oggi mi sono reso conto di essere davvero arrivato, di essere tornato nel mondo. E’ successo quando ho compiuto un gesto che era ormai sepolto nella mia memoria: attraversare la strada. Era così sepolto che ho esitato almeno dieci minuti sul marciapiede prima di trovare lo spazio giusto. Percepisco il calore salire dai cofani delle auto e l’odore dei freni pizzicarmi il naso. Riprendono i miei starnuti allergici.

Foto: 18 aprile 2011, autoritratto.

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