sulla fotografia

08/04/10








La foto di apertura di questo blog (la grande sopra nel titolo) è mia. L’ho scelta per due motivi. Quello più nobile: mi piace. Quello meno nobile: non saprei dove e come andare a pescare una foto adatta (vedi a questo proposito il post “cosa da segretarie”). Chi fa da se fa per tre.



Baracoa, provincia di Guantanamo (Cuba), febbraio 2008. Il progetto un po’ folle di restaurare una Chevrolet 1957 in un paese sotto embargo da parte degli USA mi ha permesso più di ogni altra cosa di entrare nella realtà cubana. Ho conosciuto un contadino che quando torna dai campi fa il meccanico. Un tornitore che lavora nel salotto di casa con pezzi di acciaio inossidabile che provengono non si sa bene da dove (casualmente un suo parente lavora nella fabbrica di acciaio inossidabile). La solidarietà tra i rari automobilisti. Una contadina venuta negli anni settanta dalla Cecoslovacchia e mai più ripartita che non ricorda più nemmeno il nome della sua città natale. Sto percorrendo il tratto iniziale della strada chiamata la Farola che da Baracoa si arrampica sulla Sierra e poi scende sulla costa sud e prosegue fino a Guantanamo. Insieme alla base aeronavale USA di Caimanera, è il manufatto più celebre della provincia di Guantanamo. Una celebrità pienamente meritata: torrenti cristallini, pini e piccole piantagioni di caffè. Sulla Farola ho visto l’alba più bella della mia vita, nebbiosa e cangiante (l’alba). Ho appena consegnato al mio meccanico dei pezzi di ricambio, percorrendo l’ultimo miglio di un percorso che spiega più di mille parole le contraddizioni economiche di Cuba: Seattle, Francoforte, Malpensa, Bolzano, Monaco, Madrid, Avana, Baracoa. Ho fatto passare al check –in un albero a gomiti da novantatré chili in valigia e sei pistoni e sei bielle nel bagaglio a mano. Ma questa è un’altra storia.

Per spostarmi da Baracoa, dove abito, alla casa del mio meccanico prendo l’autobus. È un camion Ford del 1948 trasformato con panche di legno e una tettoia. Costa 5 pesos cubani e fa servizio continuo fino a Paso de Cuba e ritorno. E’ privato, il proprietario ha una licenza governativa. È un mio amico e non mi fa pagare. M’invita a sedermi in cabina quando c’è posto, ma io preferisco stare dietro. Mi piace tantissimo quel tragitto di venti minuti: osservo il paesaggio, osservo le madri coi loro bambini, gli studenti e rimpiango di non essere un pittore e di non poter fissare su tela quelle scene. Ho fatto la consegna e mi sono lavato le mani, non tocco mai la Nikon F4 se non ho le mani pulite. Adesso, al ritorno, voglio fare qualche foto. Trovo il bus pieno di studenti che stanno rientrando in città, carichi di borse e di camice stirate stese sulle grucce in filo d’alluminio. Inizio a scattare, però ci sono troppe vibrazioni, è troppo buio e i ragazzi sono troppo vicini a me. Poi, a causa dell’afa, delle vibrazioni e della puzza dello scarico i ragazzi non sono disponibili davanti all’obiettivo come lo sono solitamente i cubani.Vado allora sulla piattaforma posteriore a godermi il fresco, c’è appena stato un acquazzone. A pochi centimetri dal mio orecchio si trova un grosso bullone arrugginito che viene sbattuto contro la tettoia per informare il conducente che si desidera scendere. Appoggio la F4 sulle ginocchia e alzo lo specchio per rendere lo scatto più silenzioso. Nessuno fa caso a una macchina fotografica tenuta lontano dagli occhi. Il camion frena davanti alla fermata. Scatto senza nemmeno guardare.



Due mesi dopo in Italia, quando ho avuto in mano la diapositiva ho detto: “E questa?” Di questa foto mi intriga la frammentazione, la presenza di elementi indipendenti. La sottile inquietudine. L’uomo che col suo gesto faticoso sta scendendo (o salendo?). Il cratere nel cemento del muretto che sembra un riuscitissimo trompe l’oeil. I calzini con l’elastico allentato della ragazzina seduta sul muretto. La vegetazione lussureggiante alla sua destra. L’altra ragazzina che con un gesto consapevole porta alla bocca un tubo di plastica che forse conteneva delle caramelle. La scritta Jose Luis sul muro della pensilina. Il paio di gambe in shorts blu elettrico che sbuca sotto le ascelle del passeggero.



Una volta ebbi la fortuna di mostrare le mie foto a un critico fotografico di livello nazionale che mi disse senza conoscermi e senza sapere che fossi di Bolzano: “Si vede l’influenza tedesca, Lei ha avuto a che fare con il mondo tedesco?” Doveva essere un veggente più che un critico. Mi raccomandò: “La vista è un senso sopravvalutato, bisogna imparare a fotografare con l’olfatto e con il tatto. Non bisogna guardare nel mirino, bisogne vedere prima nella propria mente”.


























Immagine di Larksfem

6 commenti:

Anonimo ha detto...

Forte! Scrivi proprio bene. Ho 25 anni e sono fotografa dilettante, apprezzo molto la tua lettura dell'immagine.

F4, diapositive: quando passi al digitale?

Dario ha detto...

Grazie per i complimenti, la lettura dell'immagine l'ho imparata sui libri di fotografia. Li compravo se il prezzo era abbordabile, li sbirciavo nelle librerie Feltrinelli se erano troppo cari.

Sei fotografa, quindi sai bene che passare al digitale e restare al livello della F4 significa dover vendere un rene. In questo momento mi servono tutti e due.

Attualmente non uso né il digitale né l'analogico. Avevo portato la F4e i suoi tre obbiettivi in un viaggio in Argentina e Brasile. Era stata sul tavolino del bar nella stazione degli autobus Retiro di Buenos Aires, l'avevo lasciata in stanze di albergo con la porta in cartone nel quartiere Palermo. Mi aveva seguito alle cascate di Iguazu. E non era successo niente.

Ci siamo separati alla stazione di Bolzano, mi sono girato un attimo per prelevare dal bancomat i soldi per il taxi...

Roberta 85 ha detto...

Bella la foto, e molto piacevole la spiegazione sulla sua origine.
Mi dispiace per la Nikon. Mi sa che ti sei rilassato troppo all'arrivo nella tua città, pensavi di essere al sicuro dai furti.

A livello di letture fotografiche, cosa mi potresti suggerire?

Dario ha detto...

La fotografia è un argomento vastissimo, ci sono tante fotografie e direi che ognuno può trovare il genere che più gli piace.

"La camera chiara" di Roland Barthes è un inizio eccellente. In seguito puoi andare a cercare nel catalogo di Contrasto che rappresenta in Italia l'agenzia Magnum Photos e ha ottimi libri, molti dei quali a prezzi ragionevoli.

Se vuoi imparare a fotografare, ci sono tanti buoni manuali dai più semplici ai più complessi. Sceglerei qualcosa di semplice, meglio se di qualche anno fa e basato sulla classica fotocamera meccanica manuale.

I testi sacri "Il negativo" di Ansel Adams e "Luce e illuminazione nella fotografia" di Andreas Feininger sono troppo difficili e contengono delle tecniche difficilmente applicabili da parte di un fotoamatore.

Buona lettura!

Roberta 85 ha detto...

Dario, cos'è la "classica fotocamera meccanica manuale?"

Dario ha detto...

Hai ragione, non puoi saperlo: ormai è cosa da museo. Erano le macchine fotografiche che avevano il controllo dei tempi e dei diaframmi indipendente e manuale, cioè senza automatismo. In sostanza non era la macchina ma il fotografo a sceglierli. La stessa funzione si trova oggi su alcune digitali, ti pui informare facilmente prima dell'acquisto.