Intervista (1)

03/06/12



Chi pensa che scrivere sia facile, si sbaglia di grosso. Tanta fatica, tanto tempo e poi non si è mai soddisfatti del risultato. L'inevitabile solitudine, la mancanza di riconoscimento. Per fortuna arrivano dei momenti che ripagano di molti sforzi e mi fanno dire che è valsa la pena di essere perfezionista e intransigente.
Si sa che per ogni artista la propria città è la piazza più ostica. Per questo sono stato molto lusingato quando Il quotidiano della mia città "Alto Adige", mi ha dedicato il giorno 27 maggio una lunga intervista. La chiacchierata, molto a briglia sciolta, non ha potuto essere pubblicata interamente per motivi di spazio. Qui di seguito la versione integrale.

"Uno psicoarchitetto di nome Franz Malinverno, sull’orlo di una crisi di nervi, che progetta edifici anti-suicidio. Un’ondata di suicidi che accade, suo malgrado, proprio in questi edifici. Un’indagine dove nessuno sa bene cosa cercare e che Malinverno porterà fino in fondo. Sullo sfondo di questo romanzo insolito, dalla scrittura asciutta e lineare, una Bologna che conviene credere del futuro, ma assomiglia maledettamente al presente. Incontriamo Dario Ansaloni, bolzanino, autore di“Crisantemi Galleggianti”.

“Ma come le è venuta l’idea di un architetto che progetta edifici anti - suicidio?”
”Non mi ricordo più. Io non invento mondi quando quello reale non mi piace più o mi annoia. Credo piuttosto che la funzione dello scrittore, e dell’artista in generale, sia simile a quella del lombrico che divora gli scarti della società e li restituisce sotto forma di materia vitale, riutilizzabile. Non so che cosa avevo divorato nel lontano 1996 quando ho concepito la storia di Crisantemi. La misi subito nel cassetto, giudicandola una storia totalmente delirante che non avrebbe interessato nessuno

E quando l’ha tirata fuori?
Anni dopo, stavo guidando su un’autostrada svizzera. Accesi la radio e ascoltai quello che pensai fosse un programma satirico di cattivo gusto che parlava di grattacieli abbattuti da aerei di linea. Era l’11 settembre 2001, in quella tragedia immane un pugno di suicidi stava cambiando il mondo e stava scatenando una serie di avvenimenti senza senso. Ad esempio invadere l’Afghanistan, oppure accusare l’architetto che aveva progettato le torri, un mite giapponese che offriva tutto il suo aiuto per determinare con sicurezza la reale dinamica del crollo, di avere progettato le torri così alte in quanto persona di bassa statura. Era proprio venuto il momento di rimettermi al lavoro su Crisantemi, la realtà aveva praticamente raggiunto la mia immaginazione.

E oggi?
Oggi, se leggo i giornali, vedo purtroppo che l’idea di edifici a prova di suicidio è assai attuale. Le mie fantasie sono state ampiamente superate dalla realtà. Mi riferisco ai suicidi degli imprenditori. Naturalmente la soluzione al loro dramma non sta nell’architettura. Non mi meraviglierei, ma per carità non scriva che lo auspico, se una brava persona e padre di famiglia cui la banca ha tolto la casa perché lo Stato non gli paga le fatture, scegliesse di prendersi i suoi soldi senza passare dallo sportello invece di autodistruggersi. Credo che in questo modo andrebbe a colpire dove fa male. E accenderebbe una miccia molto più lunga e molto più veloce di un black block che spacca un bancomat solo per il gusto di farlo, solo perché si sente tagliato fuori dal giro grosso. Il cocktail in cui nuotiamo è fatto di migliaia d’ingredienti che sono innocui in sé. Ma il tutto inizia a odorare sempre più di Molotov, manca la scintilla. (segue)


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