Dispatches from Chechnya

20/04/12


Sono stato a Mosca. Ho avuto, cosa che non capita quasi mai in una trasferta di lavoro, anche il tempo di vagabondare per la città. L’imponente Piazza Rossa con i campanili-gelato. Lenin (apparentemente) imbalsamato. I formidabili tesori del Cremlino. Lo Shuttle sovietico Buran, un faraonico progetto spaziale (vi lavorarono oltre un milione di persone) che contribuì economicamente al crollo del regime comunista e ora allieta i bambini in un angolo estremo del Gorkij Park, affacciato sulla quieta Moscova.

Ma la mia testa era con Anna.




Anna Politkovskaja nasce il 30 agosto 1958 a New York, figlia di diplomatici sovietici presso l’ONU e studia giornalismo all'Università di Mosca. La sua carriera inizia nel 1982 al famoso giornale moscovita Izvestija, che lascerà nel 1993. Dal 1994 al 1999, lavora alla Obščaja Gazeta.
A partire dal giugno 1999 fino alla fine dei suoi giorni, lavora per la Novaja Gazeta. Nello stesso periodo pubblica alcuni libri, fortemente critici contro Vladimir Putin, sulla conduzione della guerra in Cecenia, Daghestan ed Inguscezia. Spesso per il suo impegno professionale viene minacciata di morte.
Nel 2003 pubblica il suo terzo libro, A Small Corner of Hell: Dispatches From Chechnya (tradotto in Italia con il titolo Cecenia, il disonore russo), in cui denuncia la guerra brutale in corso in Cecenia dove migliaia di cittadini innocenti sono torturati, rapiti o uccisi dalle autorità federali russe o dalle forze cecene. Durante la stesura del libro, la Politkovskaja si è avvalsa anche delle testimonianze di militari russi.
Anna viene ritrovata morta il 7 ottobre 2006, giorno del compleanno dell'allora presidente russo Vladimir Putin, nell'ascensore del suo palazzo a Mosca. La prima pista seguita fu quella dell'omicidio premeditato e operato da un killer a contratto. Il mandante è ancora oggi sconosciuto: voci non confermate imputano il delitto proprio al presidente Putin, più volte bersaglio di pesanti critiche da parte della giornalista.
Dal 1993 ad oggi sono stati uccisi in Russia 294 giornalisti, fotografi e operatori radio-televisivi. Alto anche il numero dei giornalisti che sono scomparsi senza lasciare tracce (7 tra il 2001 e il 2004). Numerosi anche i giornalisti stranieri, tra i quali il freelance italiano di Radio Radicale Antonio Russo, il cui corpo fu rinvenuto il 16 ottobre 2000, orribilmente torturato, nelle vicinanze di Tbilisi, capitale della Georgia.
Politkovskaya, massima espressione in Russia del giornalismo investigativo, è stata la quinta vittima, in un decennio, dello stesso giornale: il quotidiano dell’opposizione Novaya Gazeta
Nonostante quello che ho letto sulla tua implacabile determinazione vedo in questa tua foto, Anna, uno sguardo puro e mite. Lo sguardo di un’amica che è sempre pronta a correre quando c’è bisogno, anche quando il ragazzino della portinaia ha preso un brutto voto. Hai insegnato che un giornalista non deve vendersi mai. Nemmeno per la cassetta di vini a Natale, nemmeno per le minacce di morte. Sapevi di essere condannata e, dicono, non permettevi più a colleghi e famigliari di accompagnarti per non esporli a grossi rischi. La tua colpa è stata, con le tue parole, quella di essere "semplicemente una persona che descrive quello che succede a chi non può vederlo”. La tua colpa è stata di criticare un regime che tutti sanno essere brutale e corrotto ma di cui nessuno, soprattutto l’Italia, può fare a meno.

Per Anna.




Discorsi di macchine

21/03/12


Lancia, rimembri ancor……

Nella foto la Lancia Gamma berlina, presentata nel 1976. Una linea strepitosa (firmata Pininfarina) che unisce all’opulenza dei volumi linee tese di estrema raffinatezza. Un Cx di 0,30, strabiliante per i tempi. Un pregiato motore boxer interamente in alluminio che in quel momento è anni luce avanti rispetto alle rivali Mercedes, BMW e Citroen.
La Gamma è l’auto dei ministri e delle alte cariche nazionali, dei ricchi, delle belle signore con le loro collane di perle e il loro odore di buono che l’autista accompagna a fare shopping.
Da otto anni nel gruppo Fiat, la casa di Chivasso deve sottoporre ogni progetto alla direzione di Torino, ma ha ancora carta bianca per quanto riguarda le soluzioni tecniche che per tradizione devono essere innovative, sofisticate e (così si lamentano in Fiat) costose da realizzare. Ma è così che vuole il Lancista, un cliente esigente che chiede di correre ma senza rinunciare al lusso discreto dentro e fuori e che possiede una capacità di spesa e una cultura automobilistica superiore alla media. Un cliente fortunato che, solo per citare alcune prime mondiali, ha
potuto guidare la prima vettura al mondo con carrozzeria a scocca portante (Lambda, 1922), quella col primo sei cilindri montato trasversalmente (Aurelia, 1950) e che dalla Beta (1971) in poi ha potuto contare sul Superduplex Lancia, un sistema frenante che applica il principio aeronautico di ridondanza dei sistemi e si mantiene efficiente anche in caso di grosse avarie. La Gamma è pensata per loro, è l’erede designata della magnifica Flaminia, della più discreta Flavia e della 2000, vero concentrato di tecnologia.
Ma la Gamma è al tempo stesso l'apogeo e il canto del cigno, l’ultimo segno incisivo lasciato da Lancia e probabilmente da tutta l’industria automobilistica nazionale, nel segmento difficile e poco remunerativo delle grandi ammiraglie di lusso.
Avrà purtroppo inizialmente problemi di affidabilità che la casa, rallentata dalle logiche del gruppo Fiat, non riuscirà a risolvere con prontezza e che offuscheranno irrimediabilmente il prestigio del modello e del marchio.
Non è soltanto Fiat a togliere il vento dalle vele alla Gamma, ci si mette anche il Governo che vara una tassazione estremamente penalizzante per le cilindrate superiori a 2000 cc (La Gamma ne ha 2500). Si cerca di rimediare con un motore da due litri, ma il danno è fatto: il nuovo propulsore non è in grado di garantire qualità dinamiche all'altezza della vettura.
Prodotta in soli 15292 esemplari (6789 per l’affascinante Coupé) è oggi, con un valore in costante ascesa, un investimento sicuro per i collezionisti.

Donna

04/03/12


1968: l’infermiera militare Donna Hamilton consola un bambino vietnamita raccolto poche ore prima dai fanti americani, piangente, accanto al cadavere della madre uccisa in un bombardamento della US Air Force sul suo villaggio.L’autore di questa foto, John Olson, trascorse due anni in Vietnam dove restò ferito due volte. Successivamente, a soli 21 anni, divenne il più giovane fotografo in servizio per Life. Il suo grande talento e la giovane età gli permisero di realizzare immagini inconsuete come questa. Sono tanti gli elementi che rendono questa foto così potente: Il magistrale uso della luce. La testura sgranata e rarefatta delle due figure umane. Le manine del piccolo che si aggrappano alla casacca dell’infermiera per trattenere a se almeno questa madre. La salvietta delicatamente posata sotto la sua guancia. Tutti questi elementi guidano il lettore in un lento avvicinamento allo sguardo di Donna che è il focus di tutta l'immagine. Si riesce a leggere attraverso lo sguardo di Donna come attraverso l’acqua: l'angoscia, il disorientamento morale, ma anche la fierezza. E’ sicuramente vero: villaggi di contadini pacifici furono bombardati indiscriminatamente. Nell'infernale pantano di Da-Nam i marines pieni di rabbia e di anfetamine compirono un massacro di donne e bambini di tali proporzioni che persino il Congresso americano, certamente non mansueto, dovette prendere provvedimenti. E vero: c’è un’altra foto celebre che ritrae una bambina vietnamita mentre corre, completamente nuda, sull’argine di una risaia con il corpo ustionato dal napalm. E’ vero però anche che ci furono dei soldati che fecero la scelta estrema dell'insubordinazione. E’ vero che il personale medico americano era in gran parte composto da volontari e in grandissima parte da civili. Alcuni di loro scelsero con forti rischi personali di difendere la popolazione civile cercando di restituire quello che i loro stessi politici e generali, scellerati, toglievano. Lo fecero con piccoli e grandi gesti, spesso istintivi, che non di rado restavano incomprensibili anche a loro stessi. Molto probabilmente fu questo l’appiglio che permise loro, dopo la caduta di Saigon, di tirarsi fuori dal pantano ancora più infernale della Post Traumatic Shock Disease e dell'ipocrita ostracismo dei loro connazionali.

Capannelle

03/02/12

Si può e si deve dire tutto il male possibile del comunismo come di ogni totalitarismo. Però ci sono dei compagni senza i quali l’Italia di oggi sarebbe ancora peggio di quel che è. Per quanto questo possa sembrare, specie ai più giovani, incredibile.

Alessandro Natta nasce nel 1918 nella città ligure di Oneglia, sestogenito di una famiglia della piccola borghesia. Si iscrive prima a Lettere e poi frequenta la Scuola Normale superiore di Pisa dove ha inizio la sua militanza antifascista. Durante la seconda guerra mondiale è inviato in Grecia e, nel caos dell' 8 settembre 1943, partecipa a Rodi alla difesa dell'aeroporto di Gaddurà attaccato da forze tedesche. Imprigionato, dimostra di avere un carattere d’acciaio quando rifiuta di collaborare con tedeschi e repubblichini. Subisce per questo una dura prigionia nella stessa Rodi.
Natta rientra in Italia solo nell'agosto del 1945. Si iscrive al Partito Comunista Italiano di Imperia e vi si dedica a tempo pieno. Sarà successivamente consigliere comunale, segretario di federazione ed infine entrerà a far parte dei massimi organismi nazionali. Stretto assertore della "via italiana al socialismo", sarà collaboratore di Enrico Berlinguer fino ad entrare nell'ufficio di segreteria. Intransigente ma leale, “il professore” (nel frattempo si è laureato e insegna) è considerato da molti un po’ troppo ortodosso. Ma viene scelto dal partito per le più delicate missioni a Mosca e nel 1969 per sanare l’eresia de “Il Manifesto”. Il 26 giugno 1984, Berlinguer scompare prematuramente durante un comizio a Padova e Natta diventa il nuovo Segretario generale del PCI. Al congresso di Firenze del 1986, nonostante i venti di cambiamento che spirano sempre più forti, viene confermato segretario. Due anni dopo, i venti sono diventati tempesta e la generazione dei quarantenni freme per prendere il controllo del partito chiedendo apertamente la testa del professore. Gli hanno affibbiato il soprannome di “Capannelle” dal famoso caratterista di Cinecittà specializzato in ruoli di anziani, che lui ricorda vagamente con i suoi tratti spigolosi. Natta deve sopportare in silenzio, non vuole nuocere al partito. Il 30 aprile 1988 è colpito da un grave infarto. Dall’ospedale, Capannelle deve sopportare in silenzio perfino che i compagni aggravino ad arte il suo bollettino medico, convinti di offrirgli così la possibilità di dimissioni onorevoli. Si sbagliano, Capannelle è di un altro avviso. E di un’altra pasta: si riprende perfettamente e regge la segreteria ancora fino al 10 giugno quando gli succede Achille Occhetto. Natta rifiuta gli incarichi consolatori che i compagni gli offrono e chiede di restare nel partito da “semplice frate”. E’ con il "Fronte del no" insieme a Cossutta quando Occhetto propone, nella storica svolta della Bolognina il cambio del nome del partito: egli è firmatario, con Aldo Tortorella e Pietro Ingrao, della mozione 2, che si propone di rinnovare la cultura politica del partito senza abbandonare il marxismo. Quando sulle ceneri del PCI nasce il Partito Democartico della Sinistra, Natta non vi rimane. Non aderisce nemmeno al Partito della rifondazione Comunista. Rimasto “senza partito”, richiede in una famosa lettera alla compagna Nilde Iotti (in quel momento presidente del Parlamento) che gli vengano concesse, nel nome dei suoi elettori, le dimissioni dal seggio che occupa per la circoscrizione ligure ininterrottamente dal 1948. La Iotti lo conosce bene e non prova nemmeno a dissuaderlo. Non può che inoltrare la richiesta alla Giunta delle Autorizzazioni. La richiesta, inaudita, fa nascere un caso istituzionale: i compagni sono pronti a votargli a favore, affinché se ne vada. Gli avversari di mille battaglie parlamentari sono pronti invece a votargli contro. Vogliono cioè che resti, dimostrando nei fatti il contrario di quello che affermano a parole, e cioè di gradire la svolta dei quarantenni del PDS. L’imbarazzo è totale, nonostante lo scrutinio segreto ci vorranno una decina di votazioni per raggiungere il verdetto: Alessandro Natta può rinunciare ai privilegi della sua carica e ritornare ad essere un privato cittadino. In un’ultima intervista definisce “una cialtroneria” la svolta di Occhetto. Cattiva coscienza di un partito che sta cambiando troppo in fretta, si ritira sdegnato nella sua Oneglia. Si occuperà solo di poesia e delle sue irriniunciabili passeggiate quotidiane sul Molo Lungo del porto cittadino. Dopo la sua morte avvenuta il 23 maggio 2001, la città di Oneglia lo ha dedicato ad un concittadino che non poteva che essere uguale a se stesso: un difetto oggi imperdonabile.

È così umida questa mattina

17/01/12



È COSÌ UMIDA QUESTA MATTINA

È così umida questa mattina
qualcosa ci sarebbe
qualcosa che mi manca
chiudo gli occhi e ti vedo
e ti vedo
e ti vedo

voglio lo splendore, lo voglio tutto
voglio lo splendore, lo voglio tutto
tutto, tutto, tutto
tutto, tutto, tutto
lo splendore tuo
è dentro di me
è dentro, dentro, dentro

tra i miei seni
ti sento navigare
nella mia testa
sono un’altra donna
sono un’altra donna!
il tuo pensiero mi penetra
il tuo pensiero spinge
spinge, spinge, spinge

se lasci andare
tutti i tuoi cavalli
io rimango
senza protezione
senza protezione
sul bagnasciuga

è così umida questa mattina
è così umida questa mattina
è così umida questa mattina

(Dario Ansaloni 2009)

La mente dello scrittore

25/12/11



Mi chiedono a volte come funziona la mente dello scrittore. Io evito di rispondere, non mi sento abbastanza scrittore. Ma oggi voglio prendere coraggio. La gente pensa che la dimensione del racconto sia una vernice che si applica sulla realtà per trasformarla in racconto. Non è così, la mente dello scrittore vede nella realtà delle cose che gli altri semplicemente non vedono e su queste inizia a tessere il racconto.
Un esempio: un giovane cliente diede un passaggio a me e altri due colleghi. Al termine del breve trasferimento chiesi ai colleghi se avessero notato anche loro che il nostro autista conservava nell’aletta parasole della sua macchina delle schedine di Superenalotto, una penna e una calcolatrice ultrapiatta. Non l’avevano notato. Successivamente, conoscendo meglio il cliente, potei verificare che quell’insolito archivio verso cui mi avevano guidato le mie vibrisse portava a sua volte ad una situazione molto interessante da un punto di vista narrativo: egli viveva con l’anziano padre-padrone che controllava tutto il tempo libero e lo costringeva non di rado a passare le domeniche a fare la conserva di pomodoro. Il gioco del Superenalotto era quindi per lui la speranza di potersi rendere indipendente e per ovvi motivi non poteva conservare quell’armamentario in casa.
La mente dello scrittore coglie il segnale impercettibile e lo insegue con pazienza e determinazione fino a arrivare a dissotterrare il diamante nascosto sotto il fango. Credo questo: la funzione dello scrittore è come quella del lombrico che divora gli scarti della società e li restituisce alla società sotto forma di materia vitale, riutilizzabile.
E’ fin troppo ovvio che si tratta di un gioco pericoloso, che può sfuggire di mano.  oltre i quali la cosa diventa d’interesse per lo psichiatra di guardia al Pronto Soccorso piuttosto che per il proprio editore.
La mente regolare riceve gli stimoli esterni e li smista lungo solide piste di rame verso la zona giusta del cervello che provvede a elaborarle. La mente dello scrittore non ha le piste in rame ma cavi smangiucchiati che producono di continuo imprevedibili falsi contatti. Il segnale, vero, viene incasellato nel punto sbagliato. Un occhiale con la montatura più grossa del solito finisce nella casella “cantanti di Fado”. E una bambina che sta passando in bicicletta finisce nella casella: “da adulta assomiglierà moltissimo alla mia vecchia maestra di tedesco..." Questo meccanismo apparentemente assurdo e dissipatorio è alla base, nel mio caso, della creatività.
Per evitare figuracce non c’è che uno stretto auto controllo e il costante confronto con gli altri. Perché mi auto-convinco che il racconto sia la realtà, e il punto di virata resta invisibile anche a me stesso. A volte mi è davvero difficile capire in quale punto la vicenda reale è partita sulla tangente del racconto. Devo esplorare a ritroso quella che mi sembra una storia perfettamente credibile per trovare la piccola cunetta che ha originato lo scarto laterale.
L’ispirazione che va a buon fine, cioè che arriva sulla pagina scritta, varia dall’uno per cento all'uno per mille di tutte le idee che si affacciano alla mia coscienza. Le altre finiscono perdute, a volte rimangono disponibili solo pochi secondi, e nemmeno se vado in giro col taccuino in tasca riesco a fermarle. All’inizio, mentre cavalcavo l’onda di un'ispirazione, mi veniva persino la febbre.  Passata la febbre, se tornavo a rileggere non riconoscevo ciò che avevo scritto. Col tempo ho imparato a gestire questo stato creativo, a usare continuamente freno e acceleratore. Ad allontanare gli elettrodi quando l’energia che vi scorre rischia di fonderli. Non riesco mai a dominare completamente questa forza, mi capita di essere così dentro a quello che scrivo da ridere a crepapelle oppure commuovermi quando mi rileggo. Una volta creati i personaggi, li lascio piuttosto liberi di esprimersi, li osservo muoversi e parlare. E’ importante che ciascuno parli la sua propria lingua, non c’è di peggio che  un romanzo dove tutti parlano allo stesso modo, cioè come parla lo scrittore.
Per capire come parla la gente non c’è metodo migliore che andare dove c’è la gente: mercati, centri commerciali, Mc Donald's. Il mio target è chiaro: reddito basso, possibilmente più generazioni insieme. Individuato il gruppo, lo seguo con discrezione. Osservo i loro gesti, le espressioni e la divisione familiare dei ruoli (quasi sempre incredibilmente rigida). memorizzo i loro dialoghi e li uso a volte in quello che sto scrivendo. Questi personaggi sono in realtà molto intelligenti,lo si vede dall’abilità cui sbancano i giochi a premi televisivi ragionando ad alta voce come campioni del mondo di scacchi. E da come alcuni di loro truffano ripetutamente i servizi sociali.
L’istinto va piegato alla fase progettuale, occorre vedere prima nella propria mente. Per scrivere il mio secondo romanzo ho fatto una cosa che prima di dava orrore: gli schemi. Ho iniziato dall’indice, in questo modo ogni cosa che scrivo finisce da subito al posto giusto. Questo non diminuisce la creatività. Al contrario, sapere dove voglio arrivare mi permette di concentrami sul come arrivarci.
Non sarei maturato come scrittore se non avessi fatto il giornalismo. I tempi serrati e la necessità di scrivere senza errori mi hanno innanzitutto insegnato a separarmi dal mio scritto senza ruminarlo all’infinito. C’è un legame affettivo quasi incestuoso tra scrittore e scritto e occorre imparare a troncarlo. Il continuo cambio di soggetto della “cronaca bianca generica” mi ha insegnato a cambiare registro, a usare di più le marce. Si passa dai prezzi della frutta al funerale di un parroco illuminato. Questa agilità continua serve per confezionare ogni volta qualcosa che il lettore possa voler leggere. Le interviste, che amo molto, sono una cosa ancora diversa: qui hai in mano la dignità dell’intervistato, non ci puoi giocare. Sono orgoglioso di avere traghettato molte persone ad affrontare per la prima volta in vita loro un mezzo di comunicazione di massa. In molti mi hanno chiamato la mattina dopo per dirmi: “...hai scritto proprio quello che volevo dire!”. Mi sono avvicinato tramite il giornalismo a conoscere quelli che sono i gusti del pubblico. Il pubblico apprezza i toni realistici, il pathos, il dramma e le sensazioni. Non serve nemmeno chiedere “volete l’olio normale o quello piccante?” Il pubblico vuole sempre e solo quello piccante. Qui bisogna fare attenzione: bisogna tenere a bada la vanità e non farsi portare verso il grottesco, verso la caricatura. A non farsi piantare i denti nella giugulare. Non ne hanno mai abbastanza, forse è la televisione che li ha viziati, vorrebbero essere presenti e vedere e sentire quello che hai visto tu, come reporter. Lettore e reporter devono restare invece due mestieri distinti.
Qualche volta il diamante non ha bisogno di essere dissotterrato e si presenta già pulito, già tagliato. Sono i rari colpi di fortuna oppure il segnale du un incerto stato stato di grazia, a seconda dei punti di vista. Mi trovavo in Piemonte a pranzare nella sala enorme di un ristorante. Oltre a me c’era solo una coppia di anziani. La signora sedeva in sedia a rotelle e aveva a sè accanto il sostegno con la bombola a ossigeno e i tubi che le entravano nel naso. Senza dire una parola, gustavano con attenzione ogni singolo boccone. Dalla finestra sopra di loro scendeva a illuminarli un fascio di luce bianca, onirica. Non lo sapevamo con certezza, eppure lo sapevamo tutti. Lo sapevo io, lo sapeva il timidissimo cameriere con la sua calvizie che arrivava fino alla nuca, lo sapeva il cuoco e lo sapevano i due anziani: quello era un momento incredibilmente solenne, quella era l’ultima volta che pranzavano insieme in un ristorante. In casi come questo la narrazione è bella che pronta, non bisogna aggiungere niente che non ci sia nella scena originale. Bisogna solo saperla vedere.
Del blog, che è un vero e proprio mezzo espressivo apprezzo soprattutto la possibilità di tornare sui miei passi e correggere qualcosa che ho già pubblicato. Aggiungo qualcosa e tolgo qualcosa. La lettura a freddo mi fa sempre scoprire delle imperfezioni che mi erano sfuggite. E’ una ricerca del vecchio rapporto incestuoso tra scrittore e scritto, me ne rendo conto. Mi chiedo poi quanti grandi romanzi sarebbero rovinati dai loro stessi autori se avessero avuto anche loro questa possibilità.

Incubo numero zero

20/11/11

Manteniamo fede al nostro impegno di aprire Crisantemi Galleggianti alla collaborazione dei lettori. Pubblichiamo un racconto (fantastico, ho verificato personalmente) del giovane Pierluigi Iachino di Noli (SV). Bello e duro come la sua terra.



Incubo numero zero



Stanotte ho dormito poco e male. Sentivo nelle lenzuola l’odore dell’ospedale. L’odore del disinfettante di cui erano impregnate le lenzuola in ospedale. Più lo sentivo e meno dormivo, e più mi agitavo. E più mi agitavo più quell’odore veniva sù. Come i soldati che anni dopo i combattimenti sentono ancora odore di carne bruciata, anche se non c’è carne che brucia. Questo lo chiamo l’incubo numero zero, quello che non posso condividere con nessuno.

Inverno, ultimi scampoli delle vacanze di Natale. Ho così tanta fretta di andarmene che esco di casa passando dalla finestra anziché dalle scale. Mi disprezzavo a tal punto, mi sentivo cattivo a tal punto da pensare che se mi sacrificavo, potevo salvare il mondo. Ambulanza, TAC, Ortopedia, consulto psichiatrico, operazione, gesso, stampelle. In ospedale ci sto bene. Tutti si prendono cura di me ed io non devo fare niente. Un’infermiera coi guanti di lattice mi fa anche la barba, velocissima. Vedere e sentire che anche tutti gli altri soffrono è una prima terapia.

Mi dimettono e mi portano fuori in barella. Ore 10 del mattino, freddo pungente e cielo azzurro. Penso "bello è bello, niente da dire. Ma come sarà visto dall’altra parte?"

Allo stesso tempo mi sento un anche po’ indistruttibile, mi prendo il merito di avercela fatta. Gli altri invece a dirmi. "Ma è incredibile, sei stato miracolato! Devi iniziare a credere ai miracoli e a Dio! Dio ti ha preso in mano e ti ha salvato"

Ci vado cauto non perché non creda in Dio ma per il semplice fatto che io e solo io ho sentito il rumore della mia testa sull’asfalto. Non proprio quello di una mano.

Comunque sia, oltre a tutti i problemi che ho già ad esempio salire sull’autobus con le stampelle e senza poter piegare le ginocchia, devo anche capire perché Dio l'ha fatto. Cioè perché mi ha salvato, mentre magari ha lasciato morire altre persone che volevano vivere. C’è un senso? C’è una missione che devo portare a termine? Se sì, quale? Ci penso a lungo soprattutto nel tragitto sull’ambulanza che mi porta alla fisioterapia. I vetri sono bianchi, non si vede fuori. Allora immagino il punto dove ci troviamo, immagino le facce della gente. Le ambulanze mi fanno pensare.

Divento un TS (tentato suicidio), forti sconti sulle medicine e niente code per le analisi. Come le donne in gravidanza. La psicologa con una certa ironia mi ha dato invece FS, non Ferrovie dello Stato ma Fallito Suicidio. In questo campo si sbaglia sempre!

Gli amici a dirmi: "ti consigliamo di non dirlo a nessuno, altrimenti... capisci anche tu...... diventeresti un "pigliami per i piedi" che nessuno invita più a casa se abita più in alto del secondo piano”. Seguo il consiglio, in questo modo mi sembra di proteggermi. Poi vengo a sapere che la sorella di un mio amico che non dovrebbe saperlo, lo sa. E se lo sa lei lo sanno tutti gli altri. Gli stessi che mi dicevano di non raccontarlo lo hanno raccontato! Apro gli occhi, capisco che mi costa di più stare nascosto che mostrarmi.



Ho trovato una risposta alla Grande Domanda: perché la morte non mi ha voluto? No. Ho trovato la missione da compiere? Nemmeno.

Però, quando ho smesso di cercare ho trovato una fila di giorni, alcuni scandalosamente belli, in regalo.



Comunque, GRAZIE.