let’s work!

22/05/10


Ho trovato lavoro, o lui ha trovato me. Comunque ci siamo trovati, tutto bene quello che finisce bene. Non lo dicevo in giro, ma ero disoccupato dall’inizio dell’anno. Sì, avevo scelto di mentire: quando mi chiedevano: “Come va il lavoro?” io rispondevo: “Benone, sempre di corsa!” Non ce la facevo proprio ad ammettere di essere senza lavoro. Intanto, con discrezione, mi muovevo tra i colloqui di lavoro. Con naturalezza fissavo negli occhi i miei interlocutori e dichiaravo: “Si potrebbe naturalmente implementare un piano per portare valore aggiunto a un prodotto high-end”. Implementare, valore aggiunto e high-end son o le tre parole magiche che non bisogna mai mancare di pronunciare durante un colloquio: funzionano sempre. Ho solo una vaga idea di cosa significhino esattamente. Credo peraltro anche gli interlocutori, ma non osano chiedere: farebbero brutta figura.








Lavoro per una ditta austriaca. Sapevo, speravo che prima o poi nel corso della mia vita sarei emigrato. La loro offerta era di quelle che non si possono rifiutare. Economicamente, in primo luogo: 30% al di sopra della miseria che si paga in Italia per una mansione analoga. In Italia mi sono sentito offrire 1.600 euro per dirigere una filiale estera nella carissima Parigi. “Abitazione esclusa”, ci hanno tenuto a specificare. Con uno stipendio così non si può nemmeno campeggiare sul lungo Senna. Il mio stipendio in Austria è tutto in busta, nessuna proposta oscena del tipo: “Una parte la dobbiamo fare in nero, conviene anche a te così non ci paghi le tasse…” I colloqui prima dell’assunzione sono stati dei gradevoli scambi di opinioni, non dei processi per direttissima finalizzati solo a tirare sul prezzo. Il direttore del personale mi ha dedicato due ore di tempo per spiegarmi cosa fa l’azienda e com’è organizzata. Poi mi ha chiesto se avessi voglia di lavorare per loro e quale avrebbe dovuto essere il mio salario. Il contratto di lavoro non aveva clausole scritte in piccolo. Tutto perfetto, tutto liscio come l’olio: ho avuto quasi paura che di colpo uscissero fuori quelli di “Scherzi a parte”. Un suo sguardo compassionevole solo quando, a proposito del salario che ricevevo in Italia, mi ha chiesto: “Settimanale o mensile?”e io gli ho dovuto rispondere: “mensile”. Alla fine ero così a mio agio che mi sono persino dimenticato di implementare il valore aggiunto per l’high-end.








Il primo giorno di lavoro, dopo il classico giro di presentazioni, ho preso posto sulla mia scrivania, su cui era appoggiato un telefono fisso nuovo e già programmato. Poi ho ricevuto la visita del collega del reparto EDP che mi ha consegnato un PC portatile nuovo di zecca e un cellulare altrettanto nuovo. Il cellulare aveva la SIM già inserita, era acceso e la batteria era già carica. Ho dovuto soltanto togliere il film protettivo dal display. Nella scatola del computer c’era anche la docking station. Non ci potevo credere: per avere una docking station e lavorare col suo portatile sulla scrivania, un mio ex-collega in Italia era quasi venuto alle mani con quelli dell’EDP. Credo che fornire un telefono carico e pronto all’uso non sia soltanto un gesto di cortesia per un collega nuovo. Credo che sia un modo per esprimere una filosofia di lavoro: quando si offre un servizio a un cliente o a un collega si deve offrire un servizio eccellente, completo. Ognuno deve fare il suo lavoro e soltanto il suo lavoro, dunque non perdere tempo a montare un cellulare. Il collega poi ha detto: “La borsa per il portatile sceglila tu come più ti piace: mi porti lo scontrino e ti verseremo la cifra che hai speso”. Non ci potevo credere, ero senza parole. È tornato a fine giornata a riprendersi i cartoni dell’imballo per smaltirli correttamente. Qui ero addirittura prostrato. Ogni tanto ho paura che sia solo un sogno da cui mi risveglierò. Ormai sono già sei notti che mi addormento e mi risveglio: un sogno sarebbe già finito, vero?








Noi italiani ci vantiamo di essere eccezionali nell’affrontare gli imprevisti, e lo siamo. Gli austriaci impiegano la loro energia per far sì che gli imprevisti non avvengano, mi sembrano più saggi. Tutto in azienda funziona come un cronometro, eppure alle 16,30 un silenzio di tomba mi annuncia che i miei colleghi sono già andati a casa.

Una grande multinazionale ha avviato una ricerca per appurare come mai nella sua filiale italiana e solo in quella vi fosse un abnorme ricorso alle ore straordinarie. I ricercatori hanno stabilito che la preparazione e la produttività dei lavoratori sono esattamente le stesse, se non superiori, rispetto a tutte le altre sedi nel mondo. Non vi sono specificità nazionali nel mercato, nella logistica e nemmeno nei rapporti con la burocrazia. Solo approfonditi colloqui personali hanno rivelato che esiste una perversa sottocultura organizzativa per cui il vicepresidente non può andare a casa prima del presidente, nemmeno se ha finito il suo lavoro. Il vicedirettore non può andare prima del direttore, il capo area non può andare prima del direttore vendite e così via fino all’ultimo fattorino, inchiodato pure lui in ufficio fino alle otto di sera. Allora ci si rovina lo stomaco a forza di caffè, si flirta tra colleghi  e si vaga inutilmente da un ufficio all’altro.








Sono andato a cercare la macchinetta del caffè: qui in Austria è splendente, liscia, illuminata. Non fa rumore, non vibra, non piscia acqua per terra. Non è maleducata e frullona come le nostre. Somministra un espresso che non è dei migliori, ma è costante, efficiente, seria, silenziosa.








Lavoro in Austria, appena qui dietro alle montagne. Uno allenato ci arriverebbe anche in bicicletta. Eppure nominalmente sono un emigrante, visto che attraverso una frontiera. Come molti emigranti italiani coltivo un po’ di sincero odio per il mio paese eppure allo stesso tempo ho il puntiglio quasi maniacale di mostrare all’estero il lato positivo dell’italianità. Dovrò però lavorare molto per imparare a soffocare in gola il riflesso pavloviano: la cialtroneria, la petulanza, la verbosità, lo sgangherato pressapochismo, la mediocrità, il “più o meno”, il “tengo famiglia”, il “ti faccio parlare con un amico mio…”, il “ti serve fattura o facciamo tranquillamente?”, il “sistemiamo poi tutto”, l’accontentarsi, il non essere esigenti con gli altri perché gli altri non lo siano con noi. In questo momento sono come quei cani ben addestrati che tuttavia non possono ancora fare a meno di abbaiare ai colombi. Mi ha aiutato involonariamente un collega che, spiegandomi una strategia commerciale, mi ha detto: “…all’estero, in Italia”. Così mi ha disorientato, mi ho fatto sentire una vertigine. Però mi ha aiutato.








Sono venti anni esatti che vendo all’estero e ci sono abituato: dopo la cena, al momento del caffè, i clienti mi chiedono con più o meno delicatezza come ha fatto l’Italia a cadere così in basso. Un signore siriano formulò così la sua domanda: “Come avete fatto a cadere così in basso se avevate la Lamborghini Miura e il transatlantico Michelangelo”. La Miura era così bella e innovativa da togliere il sonno persino a Enzo Ferrari: venduti ai tedeschi marchio e produzione. La Michelangelo era tra le navi passeggeri quello che il Concorde sarebbe stato anni dopo tra gli aerei passeggeri. Gli esemplari di quest’ultimo contesi dai musei di tutto il mondo, uno sollevato su un piedistallo a dieci metri d'altezza nell’aeroporto di Parigi, persino i ricambi tirati fuori dai magazzini e battuti all’asta fino all’ultima rondella a prezzi di un Picasso (600.000 € per il famoso naso mobile). La Michelangelo noi l’abbiamo svenduta “…perché le crociere non hanno nessun futuro…” per molto meno del prezzo di ferro vecchio all’Iran che ne ha fatto una caserma galleggiante, poi bombardata e affondata in porto durante la guerra con l’Iraq. La Leonardo da Vinci, gemella dell'Andrea Doria,  fu lasciata agonizzare per anni fuori la Spezia e colò a picco per un incendio la cui causa non fu mai chiarita. Non c’è paese di tradizione marinara anche molto inferiore alla nostra che non ne avrebbe fatto un monumento nazionale, prova e simbolo di orgogliosa supremazia.



L’Italia aveva tutte le condizioni di partenza per diventare e restare una superpotenza industriale. Aveva l’energia, aveva la posizione geografica, aveva l’accesso alle materie prime e ai mercati di riferimento, aveva la genialità, aveva il dinamismo, aveva la ricerca scientifica, aveva il gusto, aveva dirigenti e lavoratori esperti. Ha sperperato tutto questo con scellerate nazionalizzazioni, privatizzazioni, seguite poi da rinazionalizzazioni e riprivatizzazioni, che si concludevano sempre con lo stesso copione: svendita, fuga col malloppo e bancarotta fraudolenta. Ha bruciato interi patrimoni economici, industriali e umani. Ha affossato i gioielli, ha difeso invece tenacemente gli orrori come Pomigliano d’Arco e Alitalia. Oggi ci sbattono davanti al naso lo spauracchio dell’immigrazione, che sarebbe la causa di tutto. Ben diversa la realtà: nemmeno quei poveri cristi degli immigrati vogliono più fermarsi in Italia. Ci sbarcano, ma se possono filano via subito verso Germania, Inghilterra o Spagna. Ogni singolo metro che abbiamo perso nella selettiva salita della competizione tecnologica c’è costato un chilometro sulla linea di arrivo dei mercati. Mentre vedo che nonostante tutto per il made in Italy c’è sempre un occhio di riguardo nel resto del mondo, non vedo invece nessuna possibilità per il nostro paese: siamo irrecuperabili. Un sistema economico efficiente non può che essere l’altra faccia di un sistema politico efficiente. Nessuno dei due mi appare minimamente possibile.








Anni fa gli italiani e le italiane erano vivaci, orgogliosi e sempre pronti a protestare. Mi sembra che ormai non ci lamentiamo nemmeno più. In silenzio ci rialziamo, ci togliamo la polvere dai vestiti e ci asciughiamo le lacrime dopo l’ennesimo episodio dell’inarrestabile, eterno stupro nazionale. Non è retorica, ma solo la triste verità: il conto di tutte le spavalde acrobazie contabili e societarie dei furbetti del quartierino arriva sempre e solo a noi cittadini. I titoli Parmalat alla fine sono restati in mano solo ai piccoli risparmiatori, con buona pace delle banche che glieli hanno venduti per buoni sapendo che servivano solo ad accendere il caminetto. Mi chiedono anche questo all’estero: “Ma almeno qualcuno ha pagato?” Mi tocca rispondergli: “Naturalmente no”.

Devo ancora abituarmi a dire anch’io come i miei nuovi colleghi “all’estero” quando si parla dell’Italia. Approfitterò di questo week-end di Pentecoste e mi metterò davanti allo specchio a recitare: “Io vado all’estero in Italia, tu vai all’estero in Italia, egli-ella…” Chissà se mi risponderà a quel punto lo specchio: “Era quello che volevi, no? Volevi anche tu fare la fuga dei cervelli, no? Adesso però devi implementare. Devi portare il valore aggiunto. Devi diventare una persona high-end, perché ora sei all’estero!”



Foto: Palazzo della Civiltà del lavoro, Roma Eur
da
Paolo Landriscina

nella veranda di Dio

30/04/10




































































Esausto, la tuta ancora impastata di polvere lunare. Eugene Cernan, ad oggi l'ultimo uomo sulla luna, ritorna verso la terra. Immagine da BooWoow






Quarantuno anni fa l’uomo metteva piede sulla luna. Io avevo un anno, mia madre mi racconta che quella notte di lunedì 21 luglio 1969 era particolarmente afosa e che nel cielo la luna appariva del tutto nitida.




Credo che fu soprattutto quella straordinaria impresa a rendere gli anni a cavallo fra i ’60 e i ’70 un periodo di grande ottimismo, dinamismo e fede nella tecnologia. Non un brutto periodo in cui nascere, direi. Ho letto molto sull’epopea lunare, l’argomento mi affascina. Il resoconto più preciso e obiettivo è il libro “Carrying the fire” (portando il fuoco), scritto solo nel 1983 da Michael Collins. È l’unico membro dell’equipaggio dell’Apollo 11 (Armstrong, Collins, Aldrin) che sia riuscito a non perdere la testa una volta ritornato sulla terra. Alcolismo, depressione e divorzi penosi sono invece le stimmate che hanno afflitto i suoi due compagni. Di Aldrin si dice che non riuscì mai a superare il trauma di non essere stato scelto come primo a scendere la scaletta del Lem e camminare sulla luna. Gli fu preferito Armstrong: ufficialmente perché era il comandante della missione, ufficiosamente perché era un civile, mentre Aldrin e Collins erano militari. Gli USA volevano così dare al mondo la sensazione che attraverso la conquista lunare non stessero perseguendo fini militari.




M’impressionano soprattutto le cifre: ogni dollaro investito nella missione ne fruttò 50 sotto forma di ricaduta tecnologica e sviluppo di nuovi prodotti per uso quotidiano (silicone e gore-tex sono due esempi). Ogni singolo prodotto scelto per la missione (rasoio Gillette, orologio Omega, fotocamera Hasselblad e altro) godono ancora oggi di una supremazia commerciale quasi imbarazzante. Il razzo Saturn V con 111 metri di altezza, 3100 tonnellate di peso al decollo e 155 milioni di cavalli vapore è il mezzo più potente mai costruito dall’uomo, lo resterà probabilmente per sempre. Alcune delle tecnologie che ci vengono proposte oggi come novità assolute erano in realtà già disponibili, almeno per la NASA con i suoi monumentali assegni, nel 1969. Soprattutto la telematica: basti pensare che le missioni partivano dalla Florida, il controllo missione era a Houston in Texas, l’ammaraggio avveniva nel Pacifico al largo delle isole Hawaii e la regia televisiva si trovava in Australia per motivi legati a una migliore ricezione del segnale proveniente dallo spazio.




Un altro aspetto ha richiamato la mia attenzione. Quasi tutti gli astronauti che hanno partecipato alle missioni Apollo hanno riferito che, nonostante fossero circondati da paesaggi astrali meravigliosi e sconosciuti, il loro sguardo era regolarmente attirato dal nostro piccolo pianeta azzurro, la terra. Sono loro gli unici uomini che hanno potuto ammirarlo come un astro esterno. Buzz Aldrin parlò di "uno straordinario gioiello dentro uno scrigno nero, quattro volte più voluminoso che la luna vista dalla terra".






Erano tutti uomini di solidissima formazione scientifica, completamente cartesiani. Militari e civili, dotati di un coraggio fisico e spirituale fuori della norma. Uomini con un sangue freddo esemplare. A questo proposito Collins racconta che, poco prima della missione, Armstrong rischiò di morire nell’incidente di un simulatore. Appena ne fu informato, Collins si precipitò a vedere Armstrong. Lo trovò perfettamente tranquillo che faceva colazione con un toast al bacon e succo di arancia studiando un manuale di fisica. Quando gli chiese: “È successo qualcosa nel simulatore?”, lui non alzò lo sguardo dal libro e si limitò a rispondere: “Sì’”.




Trovo quindi piuttosto sorprendente che molti dei 12 astronauti (9 ancora viventi) che sono stati sulla luna nelle missioni Apollo abbiano riferito di aver concepito durante i voli pensieri che si possono senz’altro definire mistici.






















Eugene Cernan è stato l’ultimo uomo a camminare sulla luna nella missione Apollo 17, conclusasi il 19 dicembre 1972. Vi trascorse oltre 22 ore e percorse 30 chilometri a bordo del veicolo lunare Rover. Fu invidiato da tutti i padri del mondo perché lasciò il nome della figlia scritto sulla superficie lunare.  Così egli descrive il momento dell’ultimo passo umano sulla luna, non meno straordinario del primo passo:






“Risalendo i gradini della scala che portava al Lem (il modulo lunare che lo avrebbe riportato sulla terra, ndr) ho pensato che non ci sarebbe stato nella mia vita nessun luogo di cui avrei potuto dire: non ci tornerò più. Avrei voluto fermare il tempo per riflettere. Il passato, il presente il futuro, l’infinito: ero nel mezzo di tutto questo. Nella veranda di Dio. E ancora oggi non so qual'è la portata di quello che abbiamo compiuto.”


bellezza non è amore

22/04/10


Information is not knowledge.
Knowledge is not wisdom.
Wisdom is not truth.
Truth is not beauty.
Beauty is not love.
Love is not music.
Music is the best...








Informazione non è conoscenza.
Conoscenza non è saggezza.
Saggezza non è verità.
Verità non è bellezza.
Bellezza non è amore.
Amore non è musica.
La musica è il meglio…




Vincent Frank Zappa (21 dicembre 1940 – 12 aprile 1993) musicista, compositore e autore satirico statunitense: testo della canzone Packard Goose nell’album Joe's Garage: Act II, 1979.

Una cassetta rossa

18/04/10













Oggi ho avuto in mano la copia cianografica di Crisantemi Galleggianti. Si tratta dell’anteprima di stampa del mio libro che l’editore mi ha inviato a casa per l’ultima correzione. La busta imbottita era così incastrata nella mia cassetta postale che per poco non rompevo tutto. Ho dovuto piegare il plico, alla fine sulla copertina è rimasto un grosso segno. Mi sono emozionato nel vedere il frutto delle mie fatiche, quasi non potevo credere che le mie idee siano diventate un vero libro. Allo stesso tempo, Crisantemi mi è sembrato così piccolo e indifeso.






Nella cianografica non si possono più fare grandi cambiamenti o ripensamenti, ma solo correzioni minime che non vadano a modificare l’impaginazione. Mi sono messo sul tavolo della cucina, la mia postazione preferita per la correzione, e sono andato a caccia di errori di ortografia accenti sbagliati. Ho letto di alcuni scrittori veri, ad esempio Karl Marx, alle prese con la correzione delle bozze e tutti affermano che questa fase, e non la scrittura, è la più faticosa. Si consuma un sacco di tempo e non si è mai contenti del risultato.






Senza voler paragonare Crisantemi al Capitale, è stato così anche per me: all’inizio di dicembre 2009 l’editore mi ha inviato il testo così come glielo avevo proposto nel 2007. Si chiama il primo giro di bozza ed è in word, quindi si possono fare le correzioni a computer. Io pensavo che sarebbe bastata una lettura veloce, poiché il testo mi sembrava già buono. Sbagliato: il testo aveva errori di battitura e c’erano anche incertezze narrative e logiche: un personaggio che deve essere astemio e invece a un certo punto ordina una birra al bar, una ragazza che all’inizio del libro è mora e invece alla fine è bionda. Uno che esce per fare un giro in estate e torna un paio d’ore più tardi in inverno. Mancavano delle spiegazioni importanti per capire alcuni passaggi.






Il secondo giro di bozza è un file pdf impaginato secondo la linea editoriale e comprende tutte le correzioni che l’autore ha apportato al primo giro. L’ho stampato, l’ho riletto e ho segnato gli errori sul cartaceo. La terza fase è la cianografica, come detto sopra, e a questo punto quel che fatto è fatto. In totale la correzione è durata più di quattro mesi, nei momenti più intensi stavo anche otto ore al giorno sul libro. In questo modo ci sono entrato dentro completamente, mi sono identificato coi personaggi. Non sempre, uscendo di casa a fare qualche commissione, mi ricordavo di tornare a essere me stesso.






Ho spedito la cianografica all’editore con le correzioni segnate a penna e la formula abbastanza solenne che vedete nell’immagine. Ho comprato una busta imbottita e un francobollo di posta prioritaria, non ho badato a spese per il viaggio di questo figlio che se ne va verso il suo futuro. Sì, forse avrà ancora qualche piccolo difetto, ma è forte, è in grado di lottare e di farsi valere. Io non posso più fare quasi niente per lui. A testimoniare questo momento importante, l’introduzione del mio libro nella cassetta rossa della posta, c’era l’altro mio figlio. Quello vero, appena uscito da scuola: affamato assetato con voglia di gelato pieno di storielle da raccontare pieno di voti così così e relative giustificazioni paracule. Lui è fermamente convinto che il libro avrà un enorme successo, che ne scriverò tanti altri e che ci entreranno un sacco di soldi. Ha già un’età, la saggia pre-adolescenza, in cui sa che per incoraggiare qualcuno si possono anche dire delle piccole bugie. Siamo restati ancora un paio di minuti fermi davanti alla cassetta rossa, la gente ci guardava distrattamente. Poi siamo andati a prendere il gelato.


presos, prigionieri

10/04/10










Non mi sento in diritto di giudicare su un argomento tanto doloroso come lo sciopero della fame dei prigionieri cubani. Ricordo altri scioperi della fame nel passato, soprattutto quelli in Irlanda: hanno sollevato questioni morali, giuridiche, mediche e religiose di enorme complessità.



È una grande tragedia per i prigionieri, le loro famiglie e amici. È una tragedia anche per il governo cubano che in questo modo cancella le cose buone che ha fatto.



Allo stesso tempo penso al povero Stefano Cucchi morto, ci hanno detto per disidratazione, nella prigione di una Repubblica democratica, parlamentare e costituzionale.



Qui voglio dire solo una cosa di cui sono più che certo: l’indignazione internazionale contro Cuba durerà solo fino a quando Raúl Castro tirerà fuori la penna sarà pronto a firmare il prossimo ordinativo di autobus, generatori eolici, grandi alberghi o auto della Polizia.



Non potendo a causa dell'embargo USA girare in Dodge o Chevrolet, la PNR (Policia Nacional Revolucionaria) viaggia oggi in Peugeot. Negli anni ’80-90 girava sulle Lada russe. E sapete come viaggiava negli anni ’70? In Alfa Romeo 1750 (nella foto). Prigionieri comuni e politici ci sono stati trasportati verso il carcere.



Immagine: Club Alfa Romeo Duetto

sulla fotografia

08/04/10








La foto di apertura di questo blog (la grande sopra nel titolo) è mia. L’ho scelta per due motivi. Quello più nobile: mi piace. Quello meno nobile: non saprei dove e come andare a pescare una foto adatta (vedi a questo proposito il post “cosa da segretarie”). Chi fa da se fa per tre.



Baracoa, provincia di Guantanamo (Cuba), febbraio 2008. Il progetto un po’ folle di restaurare una Chevrolet 1957 in un paese sotto embargo da parte degli USA mi ha permesso più di ogni altra cosa di entrare nella realtà cubana. Ho conosciuto un contadino che quando torna dai campi fa il meccanico. Un tornitore che lavora nel salotto di casa con pezzi di acciaio inossidabile che provengono non si sa bene da dove (casualmente un suo parente lavora nella fabbrica di acciaio inossidabile). La solidarietà tra i rari automobilisti. Una contadina venuta negli anni settanta dalla Cecoslovacchia e mai più ripartita che non ricorda più nemmeno il nome della sua città natale. Sto percorrendo il tratto iniziale della strada chiamata la Farola che da Baracoa si arrampica sulla Sierra e poi scende sulla costa sud e prosegue fino a Guantanamo. Insieme alla base aeronavale USA di Caimanera, è il manufatto più celebre della provincia di Guantanamo. Una celebrità pienamente meritata: torrenti cristallini, pini e piccole piantagioni di caffè. Sulla Farola ho visto l’alba più bella della mia vita, nebbiosa e cangiante (l’alba). Ho appena consegnato al mio meccanico dei pezzi di ricambio, percorrendo l’ultimo miglio di un percorso che spiega più di mille parole le contraddizioni economiche di Cuba: Seattle, Francoforte, Malpensa, Bolzano, Monaco, Madrid, Avana, Baracoa. Ho fatto passare al check –in un albero a gomiti da novantatré chili in valigia e sei pistoni e sei bielle nel bagaglio a mano. Ma questa è un’altra storia.

Per spostarmi da Baracoa, dove abito, alla casa del mio meccanico prendo l’autobus. È un camion Ford del 1948 trasformato con panche di legno e una tettoia. Costa 5 pesos cubani e fa servizio continuo fino a Paso de Cuba e ritorno. E’ privato, il proprietario ha una licenza governativa. È un mio amico e non mi fa pagare. M’invita a sedermi in cabina quando c’è posto, ma io preferisco stare dietro. Mi piace tantissimo quel tragitto di venti minuti: osservo il paesaggio, osservo le madri coi loro bambini, gli studenti e rimpiango di non essere un pittore e di non poter fissare su tela quelle scene. Ho fatto la consegna e mi sono lavato le mani, non tocco mai la Nikon F4 se non ho le mani pulite. Adesso, al ritorno, voglio fare qualche foto. Trovo il bus pieno di studenti che stanno rientrando in città, carichi di borse e di camice stirate stese sulle grucce in filo d’alluminio. Inizio a scattare, però ci sono troppe vibrazioni, è troppo buio e i ragazzi sono troppo vicini a me. Poi, a causa dell’afa, delle vibrazioni e della puzza dello scarico i ragazzi non sono disponibili davanti all’obiettivo come lo sono solitamente i cubani.Vado allora sulla piattaforma posteriore a godermi il fresco, c’è appena stato un acquazzone. A pochi centimetri dal mio orecchio si trova un grosso bullone arrugginito che viene sbattuto contro la tettoia per informare il conducente che si desidera scendere. Appoggio la F4 sulle ginocchia e alzo lo specchio per rendere lo scatto più silenzioso. Nessuno fa caso a una macchina fotografica tenuta lontano dagli occhi. Il camion frena davanti alla fermata. Scatto senza nemmeno guardare.



Due mesi dopo in Italia, quando ho avuto in mano la diapositiva ho detto: “E questa?” Di questa foto mi intriga la frammentazione, la presenza di elementi indipendenti. La sottile inquietudine. L’uomo che col suo gesto faticoso sta scendendo (o salendo?). Il cratere nel cemento del muretto che sembra un riuscitissimo trompe l’oeil. I calzini con l’elastico allentato della ragazzina seduta sul muretto. La vegetazione lussureggiante alla sua destra. L’altra ragazzina che con un gesto consapevole porta alla bocca un tubo di plastica che forse conteneva delle caramelle. La scritta Jose Luis sul muro della pensilina. Il paio di gambe in shorts blu elettrico che sbuca sotto le ascelle del passeggero.



Una volta ebbi la fortuna di mostrare le mie foto a un critico fotografico di livello nazionale che mi disse senza conoscermi e senza sapere che fossi di Bolzano: “Si vede l’influenza tedesca, Lei ha avuto a che fare con il mondo tedesco?” Doveva essere un veggente più che un critico. Mi raccomandò: “La vista è un senso sopravvalutato, bisogna imparare a fotografare con l’olfatto e con il tatto. Non bisogna guardare nel mirino, bisogne vedere prima nella propria mente”.


























Immagine di Larksfem

"Ich bin nicht euer Superstar".

07/04/10



Il monologo teatrale Jesus Christus Erlöser (Gesù Cristo Redentore) fu rappresentato per la prima volta dall’attore Klaus Kinski (1926-1991) il 20 novembre 1971 nella Deutschlandhalle di Berlino davanti a cinquemila spettatori. La durata prevista era di novanta minuti, Kinski però riuscì a terminare solo dopo le due di notte. Successe di tutto: il pubblico si ribellò, ci furono grida di “fascista!” e “stronzo!” al suo indirizzo, alcuni spettatori salirono sul palco e s’impadronirono del microfono, molti lasciarono la platea e lo stesso Kinski si ritirò più volte dietro le quinte. Le critiche sui giornali del giorno seguente furono totalmente negative e si avanzarono ancora una volta dubbi sulla sanità mentale di Kinski. Ci fu una seconda rappresentazione il 27 novembre a Düsseldorf. Il resto della tournee fu annullato a causa dell’insolvenza dell’organizzatore. Quella fu l’ultima apparizione teatrale di Kinski.



Ho tradotto qui la chicca più celebre di quella nottata berlinese. È Kinski che parla. Lunghi capelli biondi, aria parecchio sinistra:



“Non sono il Cristo ufficiale della Chiesa, che viene tollerato tra i poliziotti, i banchieri, i giudici, i boia, gli ufficiali, i boss della Chiesa, i politici e simili rappresentanti del potere. Non sono la vostra superstar!” grida Kinski al suo pubblico. Il pubblico risponde con grida di “buhh” e, quando inizia a serpeggiare la disapprovazione, Kinski continua a infuriarsi: “Chiudete la bocca!” Uno spettatore sale sul palco e suggerisce che Gesù non avrebbe detto “Chiudi la bocca!”

Kinski furioso: “No, non avrebbe detto chiudi la bocca, avrebbe preso una frusta e gliela avrebbe sbattuta su grugno! Questo avrebbe fatto! Brutto coglione!”



Il seguito della storia viene raccontato nel bellissimo documentario “Mein liebster Feind” (Il mio nemico più caro) di Werner Herzog (1999). Nel 1972, il regista bavarese riesce a portare Kinski con se in Perù per girare il suo film a budget limitato “Aguirre, der Zorn Gottes” (Aguirre, il furore di Dio). Kinski offre una performance straordinaria, benché non completamente apprezzata dai critici contemporanei. Nella grandiosa scena finale, su una zattera alla deriva sul fiume, egli delira in mezzo a un branco di piccole scimmie. Herzog racconta che Kinski arrivò sul set ancora completamente identificato col suo Gesù Cristo teatrale, deriso e disconosciuto.



Untitled Max mi ha citato il 7 aprile