Una cassetta rossa

18/04/10













Oggi ho avuto in mano la copia cianografica di Crisantemi Galleggianti. Si tratta dell’anteprima di stampa del mio libro che l’editore mi ha inviato a casa per l’ultima correzione. La busta imbottita era così incastrata nella mia cassetta postale che per poco non rompevo tutto. Ho dovuto piegare il plico, alla fine sulla copertina è rimasto un grosso segno. Mi sono emozionato nel vedere il frutto delle mie fatiche, quasi non potevo credere che le mie idee siano diventate un vero libro. Allo stesso tempo, Crisantemi mi è sembrato così piccolo e indifeso.






Nella cianografica non si possono più fare grandi cambiamenti o ripensamenti, ma solo correzioni minime che non vadano a modificare l’impaginazione. Mi sono messo sul tavolo della cucina, la mia postazione preferita per la correzione, e sono andato a caccia di errori di ortografia accenti sbagliati. Ho letto di alcuni scrittori veri, ad esempio Karl Marx, alle prese con la correzione delle bozze e tutti affermano che questa fase, e non la scrittura, è la più faticosa. Si consuma un sacco di tempo e non si è mai contenti del risultato.






Senza voler paragonare Crisantemi al Capitale, è stato così anche per me: all’inizio di dicembre 2009 l’editore mi ha inviato il testo così come glielo avevo proposto nel 2007. Si chiama il primo giro di bozza ed è in word, quindi si possono fare le correzioni a computer. Io pensavo che sarebbe bastata una lettura veloce, poiché il testo mi sembrava già buono. Sbagliato: il testo aveva errori di battitura e c’erano anche incertezze narrative e logiche: un personaggio che deve essere astemio e invece a un certo punto ordina una birra al bar, una ragazza che all’inizio del libro è mora e invece alla fine è bionda. Uno che esce per fare un giro in estate e torna un paio d’ore più tardi in inverno. Mancavano delle spiegazioni importanti per capire alcuni passaggi.






Il secondo giro di bozza è un file pdf impaginato secondo la linea editoriale e comprende tutte le correzioni che l’autore ha apportato al primo giro. L’ho stampato, l’ho riletto e ho segnato gli errori sul cartaceo. La terza fase è la cianografica, come detto sopra, e a questo punto quel che fatto è fatto. In totale la correzione è durata più di quattro mesi, nei momenti più intensi stavo anche otto ore al giorno sul libro. In questo modo ci sono entrato dentro completamente, mi sono identificato coi personaggi. Non sempre, uscendo di casa a fare qualche commissione, mi ricordavo di tornare a essere me stesso.






Ho spedito la cianografica all’editore con le correzioni segnate a penna e la formula abbastanza solenne che vedete nell’immagine. Ho comprato una busta imbottita e un francobollo di posta prioritaria, non ho badato a spese per il viaggio di questo figlio che se ne va verso il suo futuro. Sì, forse avrà ancora qualche piccolo difetto, ma è forte, è in grado di lottare e di farsi valere. Io non posso più fare quasi niente per lui. A testimoniare questo momento importante, l’introduzione del mio libro nella cassetta rossa della posta, c’era l’altro mio figlio. Quello vero, appena uscito da scuola: affamato assetato con voglia di gelato pieno di storielle da raccontare pieno di voti così così e relative giustificazioni paracule. Lui è fermamente convinto che il libro avrà un enorme successo, che ne scriverò tanti altri e che ci entreranno un sacco di soldi. Ha già un’età, la saggia pre-adolescenza, in cui sa che per incoraggiare qualcuno si possono anche dire delle piccole bugie. Siamo restati ancora un paio di minuti fermi davanti alla cassetta rossa, la gente ci guardava distrattamente. Poi siamo andati a prendere il gelato.


presos, prigionieri

10/04/10










Non mi sento in diritto di giudicare su un argomento tanto doloroso come lo sciopero della fame dei prigionieri cubani. Ricordo altri scioperi della fame nel passato, soprattutto quelli in Irlanda: hanno sollevato questioni morali, giuridiche, mediche e religiose di enorme complessità.



È una grande tragedia per i prigionieri, le loro famiglie e amici. È una tragedia anche per il governo cubano che in questo modo cancella le cose buone che ha fatto.



Allo stesso tempo penso al povero Stefano Cucchi morto, ci hanno detto per disidratazione, nella prigione di una Repubblica democratica, parlamentare e costituzionale.



Qui voglio dire solo una cosa di cui sono più che certo: l’indignazione internazionale contro Cuba durerà solo fino a quando Raúl Castro tirerà fuori la penna sarà pronto a firmare il prossimo ordinativo di autobus, generatori eolici, grandi alberghi o auto della Polizia.



Non potendo a causa dell'embargo USA girare in Dodge o Chevrolet, la PNR (Policia Nacional Revolucionaria) viaggia oggi in Peugeot. Negli anni ’80-90 girava sulle Lada russe. E sapete come viaggiava negli anni ’70? In Alfa Romeo 1750 (nella foto). Prigionieri comuni e politici ci sono stati trasportati verso il carcere.



Immagine: Club Alfa Romeo Duetto

sulla fotografia

08/04/10








La foto di apertura di questo blog (la grande sopra nel titolo) è mia. L’ho scelta per due motivi. Quello più nobile: mi piace. Quello meno nobile: non saprei dove e come andare a pescare una foto adatta (vedi a questo proposito il post “cosa da segretarie”). Chi fa da se fa per tre.



Baracoa, provincia di Guantanamo (Cuba), febbraio 2008. Il progetto un po’ folle di restaurare una Chevrolet 1957 in un paese sotto embargo da parte degli USA mi ha permesso più di ogni altra cosa di entrare nella realtà cubana. Ho conosciuto un contadino che quando torna dai campi fa il meccanico. Un tornitore che lavora nel salotto di casa con pezzi di acciaio inossidabile che provengono non si sa bene da dove (casualmente un suo parente lavora nella fabbrica di acciaio inossidabile). La solidarietà tra i rari automobilisti. Una contadina venuta negli anni settanta dalla Cecoslovacchia e mai più ripartita che non ricorda più nemmeno il nome della sua città natale. Sto percorrendo il tratto iniziale della strada chiamata la Farola che da Baracoa si arrampica sulla Sierra e poi scende sulla costa sud e prosegue fino a Guantanamo. Insieme alla base aeronavale USA di Caimanera, è il manufatto più celebre della provincia di Guantanamo. Una celebrità pienamente meritata: torrenti cristallini, pini e piccole piantagioni di caffè. Sulla Farola ho visto l’alba più bella della mia vita, nebbiosa e cangiante (l’alba). Ho appena consegnato al mio meccanico dei pezzi di ricambio, percorrendo l’ultimo miglio di un percorso che spiega più di mille parole le contraddizioni economiche di Cuba: Seattle, Francoforte, Malpensa, Bolzano, Monaco, Madrid, Avana, Baracoa. Ho fatto passare al check –in un albero a gomiti da novantatré chili in valigia e sei pistoni e sei bielle nel bagaglio a mano. Ma questa è un’altra storia.

Per spostarmi da Baracoa, dove abito, alla casa del mio meccanico prendo l’autobus. È un camion Ford del 1948 trasformato con panche di legno e una tettoia. Costa 5 pesos cubani e fa servizio continuo fino a Paso de Cuba e ritorno. E’ privato, il proprietario ha una licenza governativa. È un mio amico e non mi fa pagare. M’invita a sedermi in cabina quando c’è posto, ma io preferisco stare dietro. Mi piace tantissimo quel tragitto di venti minuti: osservo il paesaggio, osservo le madri coi loro bambini, gli studenti e rimpiango di non essere un pittore e di non poter fissare su tela quelle scene. Ho fatto la consegna e mi sono lavato le mani, non tocco mai la Nikon F4 se non ho le mani pulite. Adesso, al ritorno, voglio fare qualche foto. Trovo il bus pieno di studenti che stanno rientrando in città, carichi di borse e di camice stirate stese sulle grucce in filo d’alluminio. Inizio a scattare, però ci sono troppe vibrazioni, è troppo buio e i ragazzi sono troppo vicini a me. Poi, a causa dell’afa, delle vibrazioni e della puzza dello scarico i ragazzi non sono disponibili davanti all’obiettivo come lo sono solitamente i cubani.Vado allora sulla piattaforma posteriore a godermi il fresco, c’è appena stato un acquazzone. A pochi centimetri dal mio orecchio si trova un grosso bullone arrugginito che viene sbattuto contro la tettoia per informare il conducente che si desidera scendere. Appoggio la F4 sulle ginocchia e alzo lo specchio per rendere lo scatto più silenzioso. Nessuno fa caso a una macchina fotografica tenuta lontano dagli occhi. Il camion frena davanti alla fermata. Scatto senza nemmeno guardare.



Due mesi dopo in Italia, quando ho avuto in mano la diapositiva ho detto: “E questa?” Di questa foto mi intriga la frammentazione, la presenza di elementi indipendenti. La sottile inquietudine. L’uomo che col suo gesto faticoso sta scendendo (o salendo?). Il cratere nel cemento del muretto che sembra un riuscitissimo trompe l’oeil. I calzini con l’elastico allentato della ragazzina seduta sul muretto. La vegetazione lussureggiante alla sua destra. L’altra ragazzina che con un gesto consapevole porta alla bocca un tubo di plastica che forse conteneva delle caramelle. La scritta Jose Luis sul muro della pensilina. Il paio di gambe in shorts blu elettrico che sbuca sotto le ascelle del passeggero.



Una volta ebbi la fortuna di mostrare le mie foto a un critico fotografico di livello nazionale che mi disse senza conoscermi e senza sapere che fossi di Bolzano: “Si vede l’influenza tedesca, Lei ha avuto a che fare con il mondo tedesco?” Doveva essere un veggente più che un critico. Mi raccomandò: “La vista è un senso sopravvalutato, bisogna imparare a fotografare con l’olfatto e con il tatto. Non bisogna guardare nel mirino, bisogne vedere prima nella propria mente”.


























Immagine di Larksfem

"Ich bin nicht euer Superstar".

07/04/10



Il monologo teatrale Jesus Christus Erlöser (Gesù Cristo Redentore) fu rappresentato per la prima volta dall’attore Klaus Kinski (1926-1991) il 20 novembre 1971 nella Deutschlandhalle di Berlino davanti a cinquemila spettatori. La durata prevista era di novanta minuti, Kinski però riuscì a terminare solo dopo le due di notte. Successe di tutto: il pubblico si ribellò, ci furono grida di “fascista!” e “stronzo!” al suo indirizzo, alcuni spettatori salirono sul palco e s’impadronirono del microfono, molti lasciarono la platea e lo stesso Kinski si ritirò più volte dietro le quinte. Le critiche sui giornali del giorno seguente furono totalmente negative e si avanzarono ancora una volta dubbi sulla sanità mentale di Kinski. Ci fu una seconda rappresentazione il 27 novembre a Düsseldorf. Il resto della tournee fu annullato a causa dell’insolvenza dell’organizzatore. Quella fu l’ultima apparizione teatrale di Kinski.



Ho tradotto qui la chicca più celebre di quella nottata berlinese. È Kinski che parla. Lunghi capelli biondi, aria parecchio sinistra:



“Non sono il Cristo ufficiale della Chiesa, che viene tollerato tra i poliziotti, i banchieri, i giudici, i boia, gli ufficiali, i boss della Chiesa, i politici e simili rappresentanti del potere. Non sono la vostra superstar!” grida Kinski al suo pubblico. Il pubblico risponde con grida di “buhh” e, quando inizia a serpeggiare la disapprovazione, Kinski continua a infuriarsi: “Chiudete la bocca!” Uno spettatore sale sul palco e suggerisce che Gesù non avrebbe detto “Chiudi la bocca!”

Kinski furioso: “No, non avrebbe detto chiudi la bocca, avrebbe preso una frusta e gliela avrebbe sbattuta su grugno! Questo avrebbe fatto! Brutto coglione!”



Il seguito della storia viene raccontato nel bellissimo documentario “Mein liebster Feind” (Il mio nemico più caro) di Werner Herzog (1999). Nel 1972, il regista bavarese riesce a portare Kinski con se in Perù per girare il suo film a budget limitato “Aguirre, der Zorn Gottes” (Aguirre, il furore di Dio). Kinski offre una performance straordinaria, benché non completamente apprezzata dai critici contemporanei. Nella grandiosa scena finale, su una zattera alla deriva sul fiume, egli delira in mezzo a un branco di piccole scimmie. Herzog racconta che Kinski arrivò sul set ancora completamente identificato col suo Gesù Cristo teatrale, deriso e disconosciuto.



Untitled Max mi ha citato il 7 aprile

Tripoli '69

31/03/10

Da poco Mina ha compiuto settant’anni. Il risalto mediatico che ha avuto il suo compleanno è del tutto meritato, Mina è un vero mito. La sua voce, le sue canzoni e il suo personaggio sono amati da un pubblico vasto ed eterogeneo.



La un’interprete bravissima, ma un po' senz’anima. È perfetta in tutte le situazioni, ma non mi trasmette emozioni. Questo si deve anche al fatto che si muove sempre parecchio lontana dai limiti del suo eccezionale strumento vocale. Io invece amo sentire quando la voce o lo strumento musicale sono portati al limite, quando “rompono”: è lì che scatta quel qualcosa che li rende indimenticabili.



La sua scelta di ritirarsi dalla vita pubblica è più che comprensibile, e sicuramente ha portato a una produzione discografica di tutto rispetto. Preferisco però l’artista che si concede alla platea fino all’ultimo. Mi vengono in mente Miriam Makeba e Celia Cruz, morte praticamente sul palco.



Le interpreti femminili si muovono sul filo del rasoio sottilissimo tra aspetto fisico, look, gestualità e voce. Un filo che non perdona il minimo errore. Credo che gli interpreti maschi abbiano vita più facile da questo punto di vista.



Nella mia personale hit parade di cantanti italiane non metto Mina al primo posto. Davanti a lei ci sono Ornella Vanoni (“Per l’eternità”) e Patty Pravo (“Tripoli ’69”).



E al numero uno c’è la mora di Forlì, Alice. Ricordo che stavo guardando Sanremo 1981, avevo tredici anni e me ne stavo sul divano accanto ai miei genitori, piuttosto assopiti. Rimasi a bocca aperta quando lei entrò sul palcoscenico. Due gambe che non finivano più, un fisico da paura, presenza scenica incredibile, grinta da vendere. Quando attaccò “Per Elisa, vuoi vedere che perderai anche me” sentii che in quella donna c’era qualcosa che non andava. Voglio dire, era diversa da tutte le altre, aveva un magnetismo fuori dal comune. Aveva un modo di fissare la telecamera… mi trapassava da parte a parte. Guardai per un attimo i miei genitori, poi aspettai incantato la fine della canzone. Ancora oggi non ho dubbi, anche per gli standard odierni Alice è stratosferica, è stellare.



È un vero peccato che oggi Sanremo sia caduto così in basso. Mi riferisco non solo alla sciatteria, ma anche le dubbie qualità vocali di molti concorrenti. Non so se sia colpa degli aut-aut delle case discografiche o della troppa importanza che viene data alle parentele. Non sarebbe meglio per tutti spendere i (nostri) soldi per fare un festival con concorrenti che semplicemente siano capaci di cantare? Non si risparmierebbero così tante furibonde critiche?



Col satellite vado a vedermi i festival sudamericani: Nicaragua, Colombia, ecc. A parte certe fatali giacche doppiopetto marroni indossate dai presentatori, quei festival sono molto, ma molto più belli di Sanremo. E credo che costino una frazione, d’altra parte qualunque festival è più economico di Sanremo. I cantanti sanno cantare, addirittura mentre si esibiscono possono permettersi di sorridere, di muoversi con scioltezza. Guardarli diventa un vero piacere.



A Sanremo, molti concorrenti sembravano agonizzanti: inchiodati sul palcoscenico, con gli occhi sbarrati e le vene al collo gonfie emettevano suoni non proprio celestiali aspettando solo che l’orchestra finisse di suonare.



… meravigliosa Alice!

l'antirughe

27/03/10

A quarant’anni inizio per la prima volta a intravedere vagamente cosa significa sentirsi in pace con se stessi. Non dico che ci sono arrivato, ma ho visto che è possibile arrivarci.



A vent’anni pensavo molto alla relazione con gli altri esseri umani e ai sentimenti. Mi confortava pensare di essere circondato da altre persone che fossero anche solo ben disposte verso di me. A quarant’anni, la mia attenzione è molto di più sul pensiero che forse non ho davanti a me il tempo per completare tutti i miei progetti, per realizzare tutti i miei sogni. Dunque devo sceglierne alcuni e mettermi al lavoro. Però subito, adesso, in questo momento. Non “domattina” o “uno di questi giorni”.

Sostengono che quando inizi a dire “ma io mi sento giovane” lì inizi a invecchiare. Anch’io dico “mi sento giovane”,  però questa energia mi arriva dal rendermi conto che non è più il momento di esitare. No, non è il romanticismo, non sto ringiovanendo davvero: è la fifa che il tempo non mi basti.



Il passaggio dei quaranta mi ha fatto sentire il conforto del senso comune. Mi spiego: quando ho smesso di rubare la crema antirughe di mia moglie e ho comprato il mio primo barattolino personale (a proposito: come si stabilisce se hai la pelle secca, normale o grassa? Ed è vero che una scelta sbagliata può avere conseguenze disastrose per la pelle?) ho pensato “ecco, questo gesto l’hanno fatto in tanti prima di me e tanti lo faranno. Ci passano tutti. È un gesto che è agito collettivamente e quindi è rassicurante”. Più o meno come i passaggi dell’adolescenza: i brufoli, il cambio di voce, la prima sigaretta ecc. Tutti ci sono passati. Poi magari sono diventati punk, secchioni, timidi, bulli, tutti diversi tra loro. Ma davanti ai brufoli sono stati tutti uguali.



Credo che l’adolescenza e i quarant’anni siano periodi simili sotto alcuni aspetti: l’energia è alle stelle, gli ormoni proclamano la loro indipendenza, la fragilità è notevole. Soprattutto è alta la propensione a commettere belle, inutili, costose, pericolose cazzate: innamorarsi, fare amicizie trascinanti, fuggire via, tatuarsi. Unirsi ai ribelli e magari poi scoprire che ribelli non ce ne sono e tu sei l'unico...

"cosa da segretarie"

24/03/10

Lo ammetto, so veramente poco di rete e di computer. E non me ne vanto. Un fatto di mentalità, credo: preferisco usare gli oggetti che appartengono all’universo della meccanica e che si possono aprire, smontare e poi rimontare. E soprattutto che si possono vedere mentre funzionano. È anche un fatto generazionale: alla fine degli anni ottanta c’era a Bologna un mio amico che si era appassionato di computer e che passava le notti a navigare in internet invece che in osteria come me e gli altri amici. Internet era una cosa ancora molto rara a quei tempi. Quando mi raccontava che aveva visto questo, fatto quello e comprato quest’altro su internet io pensavo che si stesse bevendo il cervello come quelli che abusavano dei videogiochi. Insistevo perché tornasse con noi in osteria, ero convinto che un vizio praticato da soli fosse molto più pericoloso di uno praticato in compagnia. Un giorno mi venne a trovare e mi raccontò entusiasta di una grande novità, un nuovo motore di ricerca che funzionava a meraviglia. Ingenuamente, gli chiesi se era un motore diesel o benzina. Restammo amici, ma da lì in avanti lui evitò sempre questi argomenti con me. Prima di sapere cosa fosse in realtà un motore di ricerca (e di restarne un po' deluso), mi creai l'immagine fantasiosa del motore posato accanto al computer col tubo di scarico che passa attraverso la finestra.

All’inizio degli anni novanta lavoravo in un’azienda dove non c’era ancora la rete interna, per cui le prime mail che arrivavano all’unico indirizzo attivo venivano stampate e recapitate al destinatario con la posta interna. Ci volevano un paio di giorni. Giudicai quindi la posta elettronica un’invenzione senza futuro. E non ero il solo: ricordo molto bene che molti manager non volevano nemmeno  il computer sulle loro scrivanie, come prima non volevano la macchina da scrivere. Le lettere si dettavano alle segretarie che poi dovevano sottoporsi al rituale un po’ umiliante della correzione con la penna rossa. Io usavo la matita, mi sembrava più carino. I manager non volevano il computer, dicevano: “cosa da segretarie”.